fonte: meltingpot.it
La coltre di polvere provocata dai crolli di abitazioni, chiese e capannoni si sta lentamente diradando. La paura, quella no. La terra continua a tremare, il rischio persiste e il ritorno alla normalità è un orizzonte ancora distante da raggiungere. C’è da augurarsi che, almeno stavolta, nessuno si sia messo a ridere, felice per i potenziali guadagni garantiti dalla ricostruzione.
Chi non ride di certo sono le migliaia di migranti, impiegati in molti settori strategici dell’economia emiliana che, oltre a vedersi portare via tutto dalla furia cieca della natura, non può nemmeno aggrapparsi a reti di protezione familiare in grado di fornire un aiuto e un riparo nell’emergenza.
Solitamente eventi catastrofici come quello che ha colpito ripetutamente l’Emilia portano ad accomunare, a condividere le sorti tra chi ne è rimasto vittima. In Italia no.
A Cavezzo, piccolo paese in provincia di Modena, la Protezione Civile arriva addirittura a istituzionalizzare la separatezza creando campi d’accoglienza etnicamente divisi. Italiani da una parte, immigrati dall’altra. Figli di un dio minore, e stavolta non si parla del film di Randa Haines. Parliamo di persone in carne e ossa, colpiti dalla sventura, colpevoli di aver cercato di vivere dignitosamente la propria vita. Alcuni, la vita, l’hanno persa in quei capannoni in cui lavoravano. Per gli altri, adesso, arriva la sfida più difficile: ricostruire, in un paese che arriva perfino a creare campi etnici per gli sfollati, il proprio futuro.