Oltre il Marocco

Di Vittorio Caligiuri

Il lato oscuro di una vetrina tra Sahara ed Europa, le questioni legate alle migrazioni, le sfide per la costruzione di un futuro diverso

Durante la seconda metà di maggio, le forze armate marocchine hanno smesso di bloccare la partenza dei propri cittadini determinando l’arrivo di oltre 10 000 persone nelle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla – testimonianza ancora viva di un secolare dominio coloniale. Al di là di delle congiunturali questioni di natura diplomatica, quanto avvenuto dimostra quale sia il Mediterraneo che l’EU intende costruire: uno spazio in cui l’imposizione della libertà a capitali e merci richiede l’oppressione e lo sfruttamento dei popoli. 

La vitrine, un’immagine di successo basata sullo sfruttamento

Il Marocco è un paese la cui storia complessa ed affascinante è sempre stata contraddistinta da forti contraddizioni. Oggi il paese – governato da una monarchia che dopo l’indipendenza ha consolidato il proprio potere grazie alla sua capacità di costruire un fronte comune componendo gli interessi di grandi proprietari terrieri ed alta borghesia, e ricevendo il supporto dell’occidente – appare diviso tra una facciata fatta di grandi progetti infrastrutturali, turismo ed investimenti e una realtà costituita da profonde disparità, diffusa povertà (il 10% della popolazione è in situazione di povertà estrema), il più basso indice di sviluppo umano della regione e grave disoccupazione. Tra ciò che i marocchini chiamano la vitrine (la vetrina) ed il paese reale, la distanza appare profonda. 

La vitrine, in cui fanno bella figura un tasso di crescita che nel 2020 è stato del 3,5% nonché enormi progetti che assicurano ricche commesse alle aziende europee e proventi enormi alle classi superiori del paese, quale il progetto di TangerMed – un enorme porto di transhipment con annessa area economica speciale, nella quale numerose aziende europee e nord americane stanno impiantando stabilimenti produttivi che potranno così sfruttare i bassi salari e beneficiare di una ridotta tassazione[1]– e le numerose linee ad alta velocità, le quali però, dati i prezzi non commisurati ai redditi della popolazione, viaggiano vuote, non è pensata per nascondere la realtà del paese: è parte integrante di una struttura politica economica che ha nel servizio dei convergenti interessi dei capitali locali ed internazionali il proprio fulcro[2]. Mentre nell’ottobre 2020 il primo ministro Saadeddine El-Othmani festeggiava davanti ad una platea composta principalmente da rappresentanti dei paesi e del mondo degli affari occidentali il posizionamento del reame al 53esimo posto nella classifica complessiva DoingBusiness– un elenco curioso e poco neutrale politicamente, se non altro perché rendendo conto di quanto ogni paese favorisca gli interessi degli investitori stranieri e senza considerare ciò che questo determina dal punto di vista sociale, è composto da classifiche parziali in cui il Marocco in virtù della bassa pressione fiscale e delle poche regole poste all’impresa presenta una situazione sostanzialmente paragonabile se non migliore di molti paesi europei[3]con i loro “costosi” quanto “inutili” regolamenti e sistemi di welfare (l’Italia è al 58esimo posto, il rigorista ed austero Lussemburgo al 72esimo[4]) – il paese era 121esimo nella classifica relativa all’indice di sviluppo umano stilato dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo umano, molto indietro rispetto a Tunisia (classificatasi 95esima) ed Algeria (91)[5], rispettivamente 78esima e 157esima nella classifica DoingBusiness.

La vitrine, ha però diverse funzioni. Questa infatti permette di rappresentare un paese la cui popolazione, malgrado le tanto propagandate performance economiche – o forse proprio in virtù del modello basato sulla remunerazione dei capitali privati da cui tali performance dipendono, come dimostrato dagli effetti che proprio sui livelli di scolarizzazione hanno avuto gli aggiustamenti strutturali imposti negli anni ’80 al paese da Fondo Monetario Internazionale e World Bank[6]– nel 2009 aveva un tasso di alfabetizzazione di circa il 55%, oggi arrivato a circa il 70% (il che implica che quasi un terzo della popolazione del royaume fortunéè analfabeta)[7], come un modello di successo, legittimandone il governo e conseguentemente inserire quella che è l’ultima catena di un sistema di sfruttamento su scala internazionale all’interno di una rappresentazione che vede l’EU come l’araldo di diritti e libertà considerati come indissolubilmente legate ad una supposta libertà di mercato, che in Marocco poggia su una struttura economica che è solo l’evoluzione di quella coloniale, e con questa intrattiene numerose similitudini[8]– imposta in collaborazione con le istituzioni finanziarie internazionali sfruttando differenti canali, tra i quali le iniziative legate all’area di libero scambio euro-mediterranea e numerosi programmi di cooperazione e prestito.

Una comoda bugia

Come tutte le rappresentazioni, anche quella di un Marocco moderno perché prossimo ai paesi dell’occidente ricco è effettiva (nel senso in cui è in grado di esercitare effetti sulla realtà) solamente sino a quando è creduta. Da ciò la necessità di rafforzare continuamente una narrazione, basata su una collaborazione che in realtà cela un rapporto di profonda asimmetria e diseguaglianza nonché sulla deliberata dimenticanza della repressione su cui poggiano gli equilibri sociali e l’attuazione di quelle politiche che di tale “collaborazione” sono la sostanza. Funzione di tale “dimenticanza” è evitare di riconoscere le proprie responsabilità, oltre che il rapporto di necessaria implicazione tra le politiche sostenute dai paesi occidentali e le condizioni del paese. Non vi è spazio nella retorica basata sulla “collaborazione” in campo economico, militare e migratorio per il controllo e le intimidazioni cui è soggetta la stampa[9], per le continue azioni operate ai danni dell’opposizione da parte delle forze militari marocchine né per la violenta repressione delle proteste, come quelle “rivolte del pane” del 1984, scoppiate come in numerosi paesi contro le riforme ed il trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto imposto dalle istituzioni finanziarie internazionali e sostenute dal capitalismo marocchino, né tantomeno per gli arresti e le torture nei confronti degli oppositori politici e dei militanti per i diritti, aumentati drammaticamente negli ultimi anni[10], dopo le proteste del movimento Hirak del 2016, in un contesto in cui, come denunciato da Amnesty International, le misure atte a contrastare la pandemia si sono trasformate in nuovi strumenti di intimidazione[11]

Un’evoluzione che si è realizzata nello stesso momento in cui le forze armate e di polizia marocchine armate dai vecchi colonizzatori francesi e spagnoli ieri e dagli americani oggi, stanno vivendo una fase di profonda riconfigurazione: nel solo 2020, anno in cui è stato firmato un accordo di cooperazione militare con gli USA che durerà per i prossimi dieci anni, le vendite di armi sono passate da 4 a 8,5 miliardi di USD[12]; non a caso, gli stretti rapporti che da prima dell’indipendenza legano la casa reale marocchina agli Stati Uniti sono stati confermati dalla più grande esercitazione che l’esercito americano abbia mai condotto sul continente – denominata “Leone Africano” e realizzata congiuntamente dalle forze armate di vari paesi NATO – tra cui dell’Italia –  le FAR (Forze Armate Reali) marocchine, le forze armate tunisine e quelle senegalesi tra il 7 ed il 18 giugno 2021[13]. Non stupisce, dunque, che vi sia scarso interesse a denunciare quelle violazioni e difendere quei diritti che assurgono ad elemento sacrale solamente nel momento in cui rappresentano uno strumento di ingerenza neocoloniale in paesi in cui si vuole estendere la propria influenza, tantopiù nel momento in cui le evoluzioni vissute dalle missioni militari dell’EU – anche in questo caso l’Italia è presente – e della Francia nell’Africa Saheliana sembrano restituire al Marocco tutta la sua importanza di perno strategico della regione, punto di collegamento tra Maghreb e Sahel. 

Oltre Ceuta e Melilla: alcune questioni relative all’ “esternalizzazione” del controllo dei flussi migratori

Quanto avvenuto durante la seconda metà del mese di maggio 2021 permette di cogliere i reali interessi dei diversi attori e le loro implicazioni reali, in virtù del rapporto profondo che esiste tra la questione migratoria ed assetti sociali ed economici internazionali – nonché con le guerre e le carestie che il funzionamento ed il mantenimento dell’attuale sistema di accumulazione implica[14]. Questo non vuol dire che la vetrina sia stata infranta, troppi sono gli interessi che da questa dipendono, ma le immagini di migliaia di persone che – sospese le attività di contrasto operate dalle forze marocchine, le quali fanno parte della strategia di esternalizzazione della gestione dei flussi migratori adottata dall’UE, la quale, essendo basata sui respingimenti e dunque rendendo impossibile la presentazione di una domanda di asilo da parte dei migranti, è illegale sia ai sensi delle norme internazionali che di quelle europee[15]– a nuoto o cercando di scavalcare le altissime recinzioni che circondano le due exclave spagnole cercano di entrare in territorio europeo, se non rapidamente derubricate alla mera narrazione di un fatto, permettono di evidenziare tre punti fondamentali – i quali travalicano la considerazione del mero avvenimento ma che, venendo sollevati da quanto avvenuto devono essere considerati alla luce di questo, così come questo deve essere poi considerato alla luce di tali tre punti. 

 Il sensazionalismo superficiale, la rappresentazione di un episodio acuto da inserire in una sequela di fatti tra loro separati, posti sullo sfondo di un contesto che si dia per scontato sia già conosciuto, perché formato da luoghi comuni spesso erronei che si nutrono di preconcetti basati su una prospettiva eurocentrica marcatamente razzista, benché celata sotto la comoda facciata del culturalismo, sono, infatti, i tratti di un’informazione fortemente ideologica che tralasciando la considerazione delle dinamiche e della loro evoluzione, danno vita ad una narrazione atta a trasfigurare la realtà, legittimando le iniziative compiute in primisdall’EU e ponendo il problema del ruolo politico dei mezzi d’informazione. 

Dei tre punti di cui sopra, il primo (1) è rappresentato dal fatto ovvio – sebbene ogni qual volta questo accada, le reazioni siano di sorpresa indignazione, quasi si trattasse di un atto di lesa maestà – per cui la strategia dell’UE basata sull’esternalizzazione della questione migratoria implica la possibilità per gli attori esterni, di adoperare il ruolo funzionale assunto in questo quadro, come strumento di pressione nei confronti dell’unione stessa e per il perseguimento di obbiettivi che, sebbene in larga parte su di questi disegnati, non possono essere totalmente coincidenti con quelli dei paesi europei – se non altro proprio in virtù di tale posizione subordinata e della diversa collocazione geografica. Sebbene questo sia l’elemento maggiormente sottolineato dai media così come dalle stesse istituzione europee, si tratta di una contraddizione minore.

 Così come a livello economico la monarchia e le classi imprenditoriali marocchine traggono la propria ricchezza ed il proprio potere dal fatto di svolgere un ruolo di “intermediazione” tra il proprio paese, le sue risorse ed i lavoratori da un lato e l’economia e la finanza europea ed internazionale dall’altro, allo stesso modo – e conseguentemente – a livello politico il reame svolge un ruolo intermedio: paese arabo ed africano allineato con gli interessi occidentali, persegue una politica che sebbene da questi sia definita, non è a questi riducibile. In entrambi i casi, malgrado le frizioni che possono verificarsi in merito a fattori particolari, la situazione va a vantaggio dei paesi occidentali, che dall’attuale situazione del Marocco traggono vantaggio. La questione del Sahara Occidentale, infatti, ha a partire dagli anni ’70 assolto la funzione di rafforzare e legittimare il potere della monarchia e quindi delle elitesmarocchine – e dunque della struttura economica neocoloniale di cui sono, sul piano interno, garanti e beneficiari – nei momenti in cui questi vivevano fasi di difficoltà. E, sebbene difficilmente si possa affermare che questo sia un momento di particolare fragilità per il potere delle classi capitaliste marocchine, la “marcia verde” ed il recupero dell’idea di “grande marocco” originariamente elaborata dal nazionalista El-Fassi hanno segnato lo strumento per recuperare, mediante l’insistenza su questioni di prestigio e retorica nazionalista, la legittimità perduta nel corso delle brutali repressioni degli anni ’60, le quali erano state a loro volta necessarie per il consolidamento dell’alleanza sociale e d’interessi che ancora oggi governa il paese nonché della struttura economica e sociale di cui quella attuale non è che l’evoluzione. Conseguentemente, rappresentando il punto di contatto unico tra un’astratta idea di “popolo” e la base delle credenziali nazionali della monarchia – poiché come divenuto evidente negli anni ’60 e confermato in seguito, mai questa funzione sarebbe potuta essere svolta da iniziative in campo economico e sociale, laddove le politiche economiche erano disegnate a vantaggio di grandi proprietari, borghesia e capitali stranieri – la legittimazione della monarchia ed il blocco sociale di cui è a capo hanno iniziato a dipendere da una politica estera che preveda l’allargamento della sfera d’influenza del paese. 

In tal senso gli attriti con la Spagna, che sono stati alla base della decisione marocchina di sospendere le operazioni di fermo dei migranti sul cammino per Ceuta e Melilla, determinati dal ricovero sul territorio iberico di Ghali – leader del fronte Polisario – in nessun modo potrebbero mettere in discussione una relazione, quale quella tra EU, Nato e Marocco, dalla quale quest’ultimo dipende e che per i primi due è fortemente vantaggiosa. Conferma di ciò, e di come la questione non possa travalicare il livello degli atti simbolici, è proprio l’operazione “Leone Africano”, alla quale la Spagna ha, appunto simbolicamente, deciso di non prendere parte. Con la decisione di lasciar passare i migranti – simbolicamente forte, ma di scarso impatto reale – il governo marocchino ha inteso non solamente mostrare alla propria popolazione la sua decisione nel perseguire l’obiettivo della “riunificazione del Grande Marocco”, ma soprattutto rendere evidente agli organi dell’EU il ruolo fondamentale che a partire dal 2018 il Marocco svolge nel controllo delle frontiere esterne dell’Europa, tantopiù in un contesto marcato dal progressivo ma deciso aumento dell’importanza dei flussi migratori lungo la cosiddetta rotta “occidentale”. Questa si articola su due percorsi, uno via terra, che vede nel Marocco l’ultima tappa prima delle frontiere europee, e l’altra via mare: la pericolosissima rotta atlantica che, proprio in virtù dell’azione di contrasto all’immigrazione operata dal Marocco e la conseguente maggiore difficoltà nel seguire il percorso via terra, è stata percorsa da dieci volte più migranti nel 2020 rispetto al 2019, i quali affrontano sui piccoli cayucos, pescherecci tipici del Gambia e del Senegal, centinaia di chilometri di oceano per raggiungere le isole Canarie[16]

Il secondo punto è costituito dal fatto per il quale, in un contesto di questo tipo i migranti vengono relegati al ruolo di oggetti, o al più di numeri che, contati in migliaia, divengono uno strumento di pressione. Ed è proprio la retorica falsamente umanitarista dell’EU a risultare smentita dalle parole dei suoi stessi portavoce. Assolutamente soddisfatti di quanto realizzatosi negli ultimi due anni grazie all’azione di contrasto dell’immigrazione svolta dal Marocco – e deliberatamente ignorando i pericoli ed il costo in vite umane determinati dal costringere un numero crescente di persone ad abbandonare la rotta terrestre per tentare la rotta atlantica, perché cinicamente consapevoli che il numero totale di coloro che tenteranno la via marittima sarà comunque minore di coloro i quali avrebbero percorso il tragitto terrestre – i rappresentanti dell’Unione, nella persona di Schinas, vicepresidente della commissione, hanno minacciato di revocare i finanziamenti che ogni anno vengono versati al paese nord africano, e che a loro volta chiaramente dimostrano quali siano i rapporti che legano il regno all’EU. Secondo Schinas, «i paesi terzi, di origine e transito, devono capire che per noi la migrazione sarà centrale nella relazione di parternariato nei prossimi anni». 

Per il contrasto dell’immigrazione, infatti, il Marocco ha ricevuto 182,9 milioni di euro nel solo 2020[17], mentre ben più importanti sono l’insieme di prestiti e finanziamenti che nella relazione di “parternariato” – parola che cela il mantenimento di rapporti economici dei quali beneficiano le classi imprenditoriali delle due sponde dello stretto di Gibilterra, atti a favorire l’investimento ed il profitto di capitali europei nel paese, così come l’accesso alle materie prime ed un alto livello di commesse per la costruzione di infrastrutture – sono implicati: dal 2007 Rabat ha ricevuto in differenti forme (in primo luogo prestiti) e con differenti vincoli oltre 13 miliardi di euro, con la prospettiva di un aumento, considerato il fatto che nel bilancio UE per il periodo 2021-2027 figura uno strumento di sostegno del valore di 79 miliardi, un quarto dei quali, riflettendo gli interessi d’oltremare dell’Unione, sono diretti ai paesi con questa confinanti. L’equazione è chiara: la concessione di fondi, necessari all’attuazione di quelle iniziative senza le quali la “vetrina” sarebbe vuota, e che tanto servono ad attirare investitori privati stranieri e consolidare la ricchezza ed il potere delle classi superiori marocchine – rafforzando così il loro legame e le possibilità di sfruttamento di lavoro e risorse che queste garantiscono, con i capitali europei – è vincolata all’impiego delle forze militari e di polizia da parte del Marocco con la doppia finalità di assicurare il mantenimento della strategia di contrasto alle migrazioni e della stabilità regionale. 

Il terzo punto, dunque, non può che essere quello che sempre viene eluso nella discussione mainstreamsulle migrazioni, solitamente facendo ricorso all’escamotage delle pressioni politiche interne, con la pressione dell’elettorato, pronto a punire chi apra le porte della “fortezza europa” – strategia comunicativa atta a offrire una paradossale legittimità popolare ad iniziative che, riflettendo la struttura politica dell’Unione, non sono state sottoposte a voto – e come se la percezione di un fenomeno quale quello migratorio non fosse in larga parte plasmato dal discorso pubblico: perché in tutto il mondo i paesi ricchi ritengono – sebbene non lo affermino esplicitamente, gli atti sono eloquenti – i flussi migratori un pericolo così grave da giustificare l’utilizzo di risorse, uomini e barriere, naturali o artificiali, al fine di impedire il trasferimento di persone dalle regioni più povere a quelle più ricche? Sebbene sia impossibile qui offrire una risposta esaustiva, si ritiene che le reazioni suscitate dall’ingresso di 10 000 persone in territorio europeo – poche di più di quante non ne vivano in un chilometro quadrato a Milano o Napoli – rendano necessario offrire alcuni elementi di riflessione. 

Globalizzazione, Imperialismo e contrasto delle migrazioni

Sebbene dal punto di vista tematico questo possa apparire un salto troppo ampio, la ragione è rintracciabile nella natura stessa delle relazioni sociali e di produzione a livello internazionale, o altrimenti detto nella struttura stessa del capitalismo, la quale è necessariamente diseguale e polarizzante – tracciando le condizioni per l’accumulazione della ricchezza e del potere nei paesi cosiddetti sviluppati, ed in particolare da parte di alcune classi sociali in questi paesi, e l’impoverimento e lo sfruttamento di quei paesi che nonostante siano cinicamente appellati “in via di sviluppo” hanno visto nel corso degli ultimi 40 anni le condizioni generali della proprie popolazioni peggiorare parallelamente allo sfruttamento cui sono soggette. Senza la considerazione di tali dinamiche, e del ruolo attivo che le classi sociali privilegiate dei paesi ad economia dipendente hanno avuto, risulta infatti difficile uscire da una visione basata su singoli avvenimenti. Risulta quindi necessario approfondire l’apparente contraddizione esistente tra un sistema economico basato sull’imposizione della deregolamentazione per quel che riguarda la circolazione di capitali e merci ed un ordine internazionale che fa della limitazione della libertà di spostamento delle persone – di alcune persone – uno dei propri tratti salienti.

Nonostante la retorica di una globalizzazione come fattore mutualmente vantaggioso, proprio a partire dalla seconda metà degli anni ’70 la parte maggiore della produzione industriale è stata trasferita dai paesi del “primo mondo” a quelli “in via di sviluppo” in base a due elementi, l’uno complementare all’altro. Il primo è costituito dal maggiore grado di sfruttamento del lavoro e delle risorse che era possibile nel contesto di paesi la cui subordinazione politica ed economica faceva sì che da un lato i capitali e le imprese fossero soggette a minori restrizioni o addirittura potessero dettare agli stati le norme che queste ritenevano più consone ai propri interessi – precisamente ciò in cui sono consistiti gli “aggiustamenti strutturali” operati a partire dagli anni ’80 (aggiustamenti, dunque, rispetto alle necessità dei capitali) dagli apparati di cui i paesi associati al dominio imperialista degli Stati Uniti avevano il controllo: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, WTO (Organizzazione mondiale del Commercio), ma anche le varie aree di scambio regionale che all’imposizione delle regole promosse da tali apparati sono state funzionali, al contempo legando i paesi facenti parte del gruppo imperialista a proprie “aree di influenza e riforma” preferenziali, come nel caso del NAFTA e dell’Area di Libero Scambio Euro-Mediterranea. 

La globalizzazione è stata dunque, in tal senso, la ridefinizione dei rapporti economici e sociali internazionali basata sugli interessi dei paesi più ricchi; il passaggio da un’economia basata sull’esportazione di materie prime ad un’economia industriale o con alcuni isolati settori industriali la cui produzione è parte di una “catena del valore globale” ha significato per i paesi caratterizzati da un’economia di sottosviluppo – tale in quanto basata sia prima che in questo secondo momento sulle necessità dello sviluppo del “centro” – conflitti, disastri ambientali ed umani, accresciuto sfruttamento. Come sottolinea Amin, infatti, il costo del lavoro nei paesi della “periferia”, considerato a parità di produttività o di “valore aggiunto”, viene mantenuto ad una frazione di quello dei paesi imperialisti – nei quali pure i salari diretti ed indiretti, sotto forma di prestazioni sociali, hanno subito una profonda compressione (tra gli obiettivi dello spostamento del trasferimento della produzione industriale) ed i consumi sono in larga parte finanziati mediante lo strumento del prestito, a sua volta elemento di remunerazione per il capitale – un fenomeno mascherato dall’economia mainstreamfacendo appello ai differenti tassi di cambio delle monete (il valore comparato di una divisa espresso in un’altra valuta, es. 1 euro = 1,19 dollari al 20/6/2021) o al differente livello dei prezzi[18], in contraddizione con la propria stessa teoria, la quale vede nel livello generale dei salari l’elemento determinante il livello dei prezzi, così da giustificare la compressione dei redditi dei lavoratori al fine di contenere l’inflazione. Una differenza, ed un livello di sfruttamento talmente elevato da risultare identificabile come la base di quelli che comunemente e per quel che riguarda le migrazioni vengono definiti push factors, ma anche, e per comparazione, dei fattori di attrazione. Di tali condizioni di sfruttamento proprio gli stati della “periferia”, come visto nel caso del Marocco, sono i garanti.

Il trasferimento delle produzioni dal centro alle periferie verificatasi tra gli anni ’70 e ’90 però non solamente fu resa possibile dallo sviluppo tecnologico dei trasporti e delle forze produttive e indispensabile dalle necessità di accumulazione determinate dalla presenza di una quantità crescente di capitale accumulato (sia in virtù dei profitti conseguiti che della struttura centro-periferia che fece affluire nelle banche occidentali, dopo il 1973, gli aumentati proventi del petrolio), la cui possibilità di reinvestimento richiedeva la possibilità di ottenere una remunerazione – un tasso di profitto che giustificasse l’investimento – incompatibile con il livello dei salari e le regolamentazioni che erano state conquistate dai lavoratori nei paesi industrializzati (anche grazie agli spazi di manovra che derivavano dalla struttura diseguale dell’economia internazionale, e ciò va detto anche in quanto la transitorietà di tali conquiste dimostra la necessità di una solidarietà internazionalista attiva e di una strategia comune – la cui elaborazione ed attuazione costituisce la grande sfida della nostra epoca). Qui infatti la contraddizione esistente tra tasso di profitto e produttività si manifestava nel fatto che aumentare la seconda avrebbe richiesto un aumento dei salari – determinando un aumento della domanda, necessario per rendere vantaggioso l’investimento – che però inevitabilmente sarebbe finito per incrementare i costi, senza aumentare i profitti. 

Lo spostamento delle produzioni, insieme alla finanziarizzazione dell’economia ed al passaggio che vede il profitto assumere la forma singolare di valore azionario, abbandonando quella del dividendo[19], nonché all’aggravamento della condizione di sfruttamento, aveva poi nel funzionamento e nella struttura effettiva assunta dal capitalismo nel periodo successivo agli anni ’70, vale a dire nella sua natura oligopolistica e conseguentemente nel rapporto esistente tra stato nazionale e grandi capitali, la sua seconda ragione. Infatti, la retorica basata sul concetto di mercato e sul capitalismo come spazio caratterizzato dalla libera concorrenza, atta a legittimare le differenze di cui tale sistema economico si nutre e che crea, non solamente appare illusoria, se non tendenziosa, non appena si consideri la sua evoluzione storica, dipendente dallo stato nazionale, come affermato da Braudel[20], ed ancor di più qualora si consideri il capitalismo nella sua realtà attuale confrontandolo con una rappresentazione che lo vorrebbe articolato attorno ai tre piani del mercato dei prodotti del lavoro sociale globalizzato, ai mercati finanziari ed al mercato del lavoro. Proprio le migrazioni, con le ingenti risorse economiche e politiche destinate al loro contrasto, rappresentano dunque il più evidente elemento di smentita di tale rappresentazione. 

Il libero movimento delle persone risulta infatti per incompatibile con il mantenimento del sistema economico e politico internazionale in virtù della forza con cui la situazione creata nei paesi maggiormente sottoposti allo sfruttamento del centro – sfruttamento di cui la guerra, come affermato da Kadri, è una delle molte forme[21]– spinge quote crescenti della popolazione mondiale a spostarsi. Sebbene in astratto e seguendo la logica propria del pensiero economico si possa affermare che tale spostamento determinerebbe, in virtù rapporto tra domanda ed offerta e del ruolo centrale che le regioni sottosviluppate hanno per la produzione e l’investimento e dunque il funzionamento dell’economia internazionale, un aumento dei salari in proporzione alla diminuzione dell’offerta di lavoro causata dalle migrazioni stesse – la cui importanza numerica aumenterebbe qualora gli spostamenti non risultassero più così ferocemente ostacolati – tale visione risulta non solamente non realistica in virtù dell’ampiezza del processo, in tale ipotesi considerato come univoco e non differenziato a seconda dei differenti contesti geografici, ma anche perché contrario alla struttura stessa del capitalismo attuale, la quale proprio sulle disparità e lo sfruttamento di una parte del mondo da parte dell’altra si basa. Senza di queste, senza lo sfruttamento dei lavoratori e dei popoli della periferia, non vi sarebbe una quota di profitto sufficiente per la riproduzione di un sistema basato sull’investimento e la remunerazione di capitali. 

Il mancato contrasto del fenomeno migratorio rappresenta un’opzione che, in virtù degli sconvolgimenti che questa renderebbe inevitabili e necessari dal punto di vista delle strutture economiche e sociali nella periferia come nel centro non può nemmeno essere presa in considerazione. Non per motivi elettorali, ma per motivi esistenziali che hanno una ben più forte connotazione politica. La possibilità del libero movimento delle persone riproporrebbe in forma rovesciata la contraddizione tra domanda, produzione e salari verificatasi in occidente alla fine degli anni ’60 e per sfuggire alla quale si è dato luogo ad un processo di rinnovata globalizzazione; ma ancora prima che tale contraddizione si manifestasse le nuove condizioni e gli sconvolgimenti che questa inevitabilmente determinerebbe renderebbe ineludibile il ripensamento e la ridefinizione dei rapporti di produzione e distribuzione della ricchezza. Da ciò deriva l’inconciliabilità di  che sia compatibile con un mercato del lavoro mondiale e dunque con la possibilità per le persone di spostarsi o fuggire da quei luoghi in cui il meccanismo di accumulazione crei condizioni sfavorevoli o semplicemente giudicate non sufficienti, manifestando l’impossibilità, nell’ambito dell’attuale sistema economico, di uno sviluppo equo e del riequilibrio tra le condizioni dei paesi semplicisticamente definiti “ricchi” e di quelli “poveri”. Per questo la lotta per i diritti dei migranti, lungi dall’essere inutile, deve essere considerata come parte fondamentale di una lotta più grande, la quale si articoli in tutti gli spazi – geografici e non – e lungo tutte le tematiche che questa, come si è visto, chiama in causa.

La rappresentazione ideologica del capitalismo che vede il capitalismo come una struttura di mercato slegato da entità statali nazionali non può rendere infatti conto dell’intrinseca incompatibilità che separa nella realtà i tre piani della vendita delle merci, dei mercati finanziari e del mercato del lavoro, risultando incompatibili con la natura polarizzante di un sistema economico e delle relazioni sociali internazionali che ha la propria base nel rapporto esistente tra i grandi capitali e gli stati nazionali cui sono legati – sia da rapporti di provenienza, sia da rapporti di reciproco interesse (come evidente nel caso dei capitali derivanti dai proventi del petrolio, i quali dipendono per la propria remunerazione dal sistema economico, politico e finanziario a guida statunitense, mentre gli USA a loro beneficiano in numerosi modi dell’afflusso di tali capitali che ne contribuiscono a rafforzare la centralità a livello internazionale) – e che ha, a livello generale, nella sua dimensione oligopolistica e talvolta monopolistica il suo tratto fondamentale, quello che permette lo spostamento di una parte cospicua delle attività produttive nei paesi “periferici”, e dunque nello sfruttamento la propria essenza più profonda, garantendo al contempo l’afflusso delle ricchezze verso il centro. 

Sebbene il tema dei monopoli, identificato come l’evoluzione più importante del capitalismo, tra gli altri, da Schumpeter[22], sia stato espunto dalle tematiche trattate dall’economia mainstream, la realtà e l’importanza dei monopoli e degli oligopoli assume tutta la sua importanza qualora si considerino quegli schemi che riassumono i marchi di produzione di proprietà delle grandi imprese multinazionali, o qualora si consideri la rete di influenza determinata dal controllo dei flussi finanziari internazionali o ancora di più qualora si considerino semplicemente i “giganti” di internet, i quali evidenziano lo stretto rapporto tra apparati dello stato nazionale e grandi capitali – solo gli stati più ricchi sono difatti in grado di finanziare il complesso insieme di fattori che contribuiscono alla ricerca ed alla produzione di nuove tecnologie, un elemento mai menzionato dal discorso liberale, che si concentra sull’ultima fase della ricerca e sviluppo, senza considerare la formazione dei ricercatori ecc. così come il ruolo decisivo in questo campo della spesa militare. Allo stesso modo il monopolio tecnologico – garantito da regole quali quello sulla proprietà intellettuale – di cui queste dispongono, con un ricavo in termini di profitti per le aziende e per gli stati cui sono queste sono legate di potere,  è elemento a sua volta legato alla terza dimensione – oltre quella del capitale  e quella della ricerca – che ne deriva, vale a dire quella del monopolio della forza militare, che, a sua volta frutto delle altre due, permette ai paesi del “centro” di difendere e rafforzare le condizioni dai quali gli altri due, e con questo la ricchezza loro e delle classi dominanti, dipendono. Questi infatti permettono l’appropriazione di risorse, ricchezza, persone e saperi. Dalle ricchezze acquisite, la capacità di legare a sé il resto del mondo. In tale senso il termine monopolio non indica solamente la posizione di unico attore in un determinato campo di un’azienda, ma il monopolio che una determinata struttura sociale ha rispetto alle risorse naturali e sociali del pianeta.

Proprio in questo momento la nuova presidenza americana ed il G7 – una riunione informale dei paesi più ricchi del mondo, quelli più strettamente associati alla struttura imperialista del capitalismo internazionale, la cui funzione è scavalcare la funzione di rappresentanza delle Nazioni Unite – stanno serrando le fila, al fine di mettere momentaneamente da parte le proprie divisioni, in tempi normali facilmente tollerabili dal sistema, per coordinare le proprie agende e sfruttare i vantaggi che complessivamente derivano dall’insieme di questi monopoli; allo stesso tempo le misure di natura economica e commerciale, l’importanza del tema della cosiddetta “proprietà intellettuale”, continuamente accennata e poi elusa, ben dimostrano come questi piani siano legati. La competizione con la Cina, che potrebbe rapidamente diventare la contraddizione attorno alla quale si articoleranno le vicende internazionali dei prossimi anni, ha già dimostrato il rapporto strettissimo che, al di là della retorica sui mercati, lega le aziende, le tecnologie, la finanza ecc. agli stati del “centro”. 

L’Unione Europea, sulla base della posizione assunta da alcuni dei paesi che la compongono – e dunque manifestando la propria realtà e le asimmetrie che la costituiscono – si è prontamente allineata. Le caratteristiche del tanto propagandato modello di sviluppo europeo e dei valori che questo dovrebbe incarnare poggiano infatti sulle asimmetrie rese più profonde dagli effetti dall’azione stessa dell’UE, i cui effetti risultano chiaramente visibili nel Mediterraneo meridionale; la possibilità di esercitare tale controllo dipende necessariamente dal mantenimento della condizione di primazia dei paesi occidentali, di qui il riallineamento nel momento in cui appaia la possibilità che questa sia messa in dubbio. Determinando e contribuendo a determinare le modalità di sviluppo dei paesi del Mediterraneo meridionale e dell’Africa (tra gli altri)  in maniera funzionale al loro sfruttamento e destabilizzando la regione mediante i numerosi interventi armati – dei quali il più visibile è stato quello in Libia, ma che si accompagna alle numerose missioni condotte nell’Africa Shariana e sub-shariana, senza considerare le iniziative condotte sotto l’egida di differenti organizzazioni in Medio Oriente – l’EU, intesa come coordinamento delle classi capitalistiche e degli stati nazionali europei, si assicura le condizioni per la redditività dei propri investimenti, determinando al contempo le condizioni che sono alla base del fenomeno migratorio, e che vengono sfruttate per assicurarne il contrasto.

 In tal senso, le vittime di cui tale sistema di contrasto – in larga parte delegato proprio a quelle strutture statuali subordinate collocate al di fuori dell’EU o non statuali ma che sono chiamate a svolgere la medesima funzione con appellativi che ne mimino la legittimità, come diviene evidente qualora il sistema momentaneamente si blocchi, come nel caso in cui quella che chiamiamo “guardia costiera” libica svolge le funzioni per le quali viene lautamente finanziata ed addestrata, o come diventato visibile nel caso del Marocco nelle settimane scorse – è responsabile non sono da considerarsi accidentali, quanto piuttosto intenzionali e funzionali al contenimento di una parte della popolazione mondiale in una parte del globo, rimarcando come l’uguaglianza in tale sistema non sia che una parola vuota. 


[1]https://www.jeuneafrique.com/1184619/economie/maroc-le-geant-tanger-med-en-vogue-malgre-la-pandemie/https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/porto-di-tangeri-marocco-cresce-un-gigante-tra-europa-e-africa-23545

[2]Au Maroc, « on te traite comme un insecte », entre tourisme et grands projets les impasses d’un modèle de développementdi Pierre Puchot, da Le Monde Diplomatique, Avril 2020 : https://www.monde-diplomatique.fr/2020/04/PUCHOT/61613

[3]DoingBusiness Morocco 2020: https://www.doingbusiness.org/en/data/exploreeconomies/morocco; si consiglia il confronto con la situazione italiana. DoingBusiness Italia 2020: https://italian.doingbusiness.org/it/reports/subnational-reports/italy

[4]Classifica DoingBusiness 2020, scaricabile sul sito: https://www.doingbusiness.org/en/doingbusiness

[5]United Nations, UNDP, Human Development Report 2020: https://report.hdr.undp.org/

[6]Vittorio Caligiuri e Gaetano Sabatini, «From Political Independence to Economic Dependence. The Different Trajectories of Stabilisation and Adjustment in Morocco and Tunisia During the 1980s», The Journal of European Economic History1 (2021), https://www.jeeh.it/articolo?urn=urn:abi:abi:RIV.JOU:2021;1.239.

[7]World Bank, https://data.worldbank.org/indicator/SE.ADT.LITR.ZS?locations=MA

[8]Au Maroc, « on te traite comme un insecte », entre tourisme et grands projets les impasses d’un modèle de développementdi Pierre Puchot, da Le Monde Diplomatique, Avril 2020.

[9]« Enquêter ? Impossible ». Le Maroc petrifié par son roi di Pierre Daum da Le Monde Diplomatique, Octobre 2016: https://www.monde-diplomatique.fr/2016/10/DAUM/56436

[10]https://www.francetvinfo.fr/monde/afrique/societe-africaine/maroc-les-violations-des-droits-de-l-homme-a-un-niveau-jamais-vu-depuis-1990_3053671.html

[11]https://www.amnesty.org/en/countries/middle-east-and-north-africa/morocco-and-western-sahara/morocco-and-western-sahara/

[12]US signs 10 years military cooperation deal: https://www.usnews.com/news/world/articles/2020-10-02/us-signs-10-year-military-cooperation-deal-with-morocco; US Military Sales to Morocco Doubled in 2020 https://www.moroccoworldnews.com/2021/01/332729/us-military-sales-to-morocco-doubled-in-2020

[13]United States Africa Command: https://www.africom.mil/pressrelease/33798/african-lion-21-exercise-begins-with-7800-troops-in-morocco-tunisia-senegalhttps://www.jeuneafrique.com/1185127/politique/african-lion-2021-quand-les-armees-marocaine-et-americaine-sentrainent-a-la-lisiere-du-sahara/; Video di propaganda realizzato da USDefenceNews in merito all’esercitazione: https://www.youtube.com/watch?v=NTXcosBD9pY

[14]Kadri, A. Arab Development Denied, Dynamics of Accumulation by Wars of Encroachment(London and New York, 2015).

[15]

[16]Consiglio dell’Unione Europea, Rotte del Mediterraneo Occidentale e dell’Africa Occidentale: https://www.consilium.europa.eu/it/policies/eu-migration-policy/western-routes/

[17]Ibidem.

[18]Samir Amin, The Law of Worldwide Value, Monthly Review Press, 2010. Per quel che riguarda gli argomenti trattati in questa sezione del testo si consiglia la lettura dell’ultima intervista concessa dallo stesso autore: https://legrandcontinent.eu/fr/2018/08/13/nous-avons-rencontre-samir-amin/, purtroppo ritrovata solo in lingua francese, sebbene inizialmente pubblicata anche in italiano. Si consiglia anche: http://patrimoinenumeriqueafricain.com:8080/jspui/bitstream/123456789/446/1/apartheid%20on%20global%20scale-converti.pdf

[19]In tal proposito si consiglia la lettura di Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, 2011. 

[20]Si rimanda a Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo, 1977.

[21]Kadri, Ali Arab Development Denied: Dynamics of Accumulation by Wars of Encroachment, 2015.

[22]Schumpeter, J.A. Capitalism, Socialism, and Democracy, prima pubblicazione 1942.