di Sofia Guerrieri
Negli ultimi anni in Europa il fenomeno delle migrazioni umane ha assunto un ruolo considerevole comportando diverse problematiche relative alla loro gestione e normazione da parte dell’Unione e dei suoi Stati membri. La privazione della libertà dello straniero e il suo respingimento/espulsione verso il Paese di origine è diventata sempre più la modalità di gestione dei flussi migratori. Il problema si amplifica poi quando ad arrivare sono più persone insieme; in questi casi, ultimamente, soprattutto nei confronti di quei migranti che provengono via mare dalla Libia, si è delineata di fatto una prassi volta alla gestione e al controllo delle frontiere e al rimpatrio verso i Paesi di origine, sulla base di accordi bilaterali o multilaterali (in primisl’accordo Italia-Libia), che purtroppo non fanno altro che incrementare l’utilizzo di centri di detenzione dove i migranti vengono costantemente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti[1].
Nel tempo la Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata molto di valutare la compatibilità di questo modus operandi con le norme contenute all’interno della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nella sentenza “Khlaifia e altri c. Italia” del 15 dicembre 2016, la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per trattenimenti illegittimi, affrontando in modo chiaro quale sia la politica europea dei respingimenti dei migranti che arrivano in Europa in modo irregolare. Nel caso di specie, i ricorrenti erano tre cittadini tunisini intercettati dalla Guarda costiera italiana mentre navigavano verso l’Europa su un’imbarcazione di fortuna, che venivano condotti in Italia e trattenuti in condizioni di privazione della libertà personale per alcuni giorni, dapprima in un centro di accoglienza e successivamente a bordo di alcune navi ormeggiate, prima di essere rimpatriati in Tunisia. La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata a seguito della richiesta di rinvio presentata dal Governo italiano avverso la sentenza della Camera del 1° settembre 2015, ravvisando la violazione degli artt. 5 e 13 della Convenzione, congiuntamente all’art. 3, e ritenendo che il trattenimento fosse privo di una base legale e che il sistema giuridico italiano non avesse offerto agli stranieri la possibilità di un ricorso effettivo circa la legalità della detenzione[2].
Questa sentenza è importante perché ha ribadito una volta per tutte l’illegittimità del trattenimento di migranti irregolari in assenza di una norma che ne giustifichi la detenzione e ha contribuito a delineare un quadro delle rilevanti violazioni sostanziali e procedurali. Tuttavia, poco convincente appare la pronuncia sotto due punti di vista: nella parte in cui non ha riconosciuto la violazione dell’art. 3, con particolare riferimento al passaggio motivazionale in cui i giudici hanno sottolineato la necessità di tenere in considerazione la situazione di emergenza che si era venuta a creare nel 2011 a causa dell’aumento dei flussi migratori; così come nella parte relativa al rispetto dell’art. 4 del Protocollo 4 della Cedu, non avendo riconosciuto alcun rischio effettivo della vita o dell’integrità fisica dei ricorrenti nel caso in cui fossero stati rimpatriati nel loro Paese.
L’approccio della Corte deve essere valutato anche alla luce delle politiche e delle legislazioni europee e dei singoli Stati membri che negli ultimi anni sono andate nella medesima direzione, dotandosi di molteplici strumenti volti ad impedire che le frontiere possano essere oltrepassate da persone non autorizzate. Le normative comuni hanno, difatti, privilegiato l’aspetto securitario rispetto a quello di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri. Ciò è avvenuto con l’istituzione di una serie di strumenti sia operativi, come Eurodac e Frontex, sia legislativi, tra i quali rientrano provvedimenti di respingimento, di espulsione, di estradizione verso uno Stato non appartenente alla UE, nonché i c.d. rinvii verso altri Stati membri della UE. L’utilizzo di questi strumenti, può comportare, e spesso comporta, la violazione dei diritti fondamentali degli interessati, quali la sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti, la privazione della libertà personale e il mancato accesso ad un giudice e quindi al diritto di difesa[3].
Uno dei problemi maggiori, dall’istituzione della Convenzione di Dublino del 1990 ad oggi, è dato dal criterio di individuazione dello Stato competente per la domanda di asilo e di protezione internazionale, laddove lo straniero non venga immediatamente respinto. Attualmente è in vigore il Regolamento UE n. 604/2013, anche noto come Regolamento Dublino III (che dopo il Regolamento Dublino II adottato nel 2003, ha sostituito la Convenzione suddetta) il quale mantiene intatta la struttura cardine del c.d. “sistema Dublino” già prevista, che si fonda sul principio del Paese di primo approdo, secondo il quale lo Stato competente ad esaminare la domanda è quello in cui il richiedente ha fatto il suo primo ingresso nell’Unione europea. Questo sistema ha mostrato nel tempo tutti i suoi limiti nel controllo e nella redistribuzione dei nuovi arrivati in Europa, non fornendo una protezione equa, adeguata ed efficiente dal momento che gli Stati di primo ingresso sono quasi sempre gli stessi e cioè quelli vicini alle frontiere esterne (come ad esempio l’Italia)[4]. I primi tentativi di riforma di questo sistema sono falliti a causa della mancanza di una strategia comune che andasse bene a tutti gli Stati membri. La proposta di riforma, avanzata nel 2017 dalla Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni (LIBE) del Parlamento europeo, prevedeva infatti il superamento del criterio sopra descritto del Paese di primo approdo e l’introduzione di un meccanismo automatico di ricollocamento sulla base di quote fisse per ciascun Paese europeo.
Dopo anni di trattative e negoziati falliti, nel mese di settembre 2020 la Commissione europea ha presentato il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo che la Presidente Ursula Von Der Leyen ha definito come la “soluzione europea” per “ricostruire la fiducia tra gli Stati membri e quella dei cittadini nella capacità dell’Unione europea di gestire le migrazioni”[5]. Tuttavia, anche se l’intento di questo nuovo Patto è quello di lasciare alle spalle le divisioni tra gli Stati membri, non mancano le polemiche sul suo contenuto. Molti infatti sono scettici riguardo all’effettiva conversione in legge e successiva attuazione del progetto avanzato dalla Commissione europea. I Paesi di frontiera, come ad esempio Malta e Italia, ritengono che a seguito della sua entrata in vigore, avranno maggiori responsabilità a causa delle procedure di screening previste per i nuovi arrivati. Il principio di solidarietà, infatti, imporrebbe già adesso agli Stati membri di affrontare uniti questa sfida e di collaborare per alleviare la pressione degli stati che si trovano “in prima linea”. Secondo altri Paesi, contrari alle politiche sulla migrazione, come ad esempio l’Ungheria, questo nuovo Patto deve invece essere visto come un’ulteriore opportunità per proteggere le frontiere esterne e di rimpatriare nei loro Paesi tutti coloro che non hanno diritto di rimanere nel territorio dell’Unione europea. Dal punto di vista infine delle ONG che negli ultimi anni si sono occupate dei salvataggi in mare dei migranti questo nuovo Patto non viene visto come un buon inizio perché, al contrario, sembrerebbe formalizzare le politiche dei respingimenti, potenziando le “deportazioni”, senza rafforzare in alcun modo le politiche umanitarie e di salvataggio[6].
Dunque, affinché le politiche europee sulla migrazione possano funzionare è necessario far coesistere, bilanciare e considerare in modo univoco, ragioni di ordine pubblico e controllo alle frontiere da un lato e ragioni di tutela dei diritti fondamentali dall’altro. Le strategie di esternalizzazione delle frontiere degli Stati membri si scontrano con i princìpi di solidarietà e accoglienza su cui si fonda l’Europa. Anche se gli Stati hanno il diritto di controllare i propri confini e garantire la sicurezza nazionale, ciò non può avvenire a scapito della protezione dei diritti umani dei migranti. Diversamente, l’unica conseguenza sarebbe quella di privare di ogni diritto coloro i quali ogni anno scappano dalla disperazione delle proprie condizioni di vita e che, se sopravvissuti al terribile viaggio che li aspetta (passando dal deserto, ai centri di detenzione libici, al Mediterraneo), hanno pochissime speranze di non essere respinti verso il proprio Paese di origine o di ottenere una qualche forma di protezione internazionale. L’Unione europea e i suoi Stati membri sono tutti a conoscenza delle gravissime violazioni dei diritti delle persone straniere che avvengono in Libia (così come negli altri Stati africani e in Turchia, Siria ecc.) e non possono rimanere complici di un sistema così inumano e degradante per la persona.
[1]ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), L’esternalizzazione delle frontiere e della gestione dei migranti: politiche migratorie dell’Unione europea ed effetti giuridici
[2]Cancellaro F.,Migranti, Italia condannata dalla CEDU per trattenimenti illegittimi in “Questione Giustizia”,11.1.2017
[3]Tria L.,Le politiche dell’Unione europea sull’immigrazione e il controllo delle frontiere
[4]Tumminello F.,Il limite del “Sistema Dublino” nella gestione dei migrantiin “Ius in itinere”, 23.6.2020
[5]Cfr. https://it.euronews.com/2020/09/23/commissione-europea-nuovo-patto-europeo-su-migrazione-e-asilo
[6]Cfr. https://it.euronews.com/2020/09/26/il-nuovo-patto-sulle-migrazioni-dell-unione-europea-divide-le-coscienze-ecco-perche?utm_source=newsletter&utm_medium=it&utm_content=&_ope=eyJndWlkIjoiNWU0ZWU1YTI1YTlkYzM5MWU1YjMzMmE4NDQ5NGM2OGUifQ%3D%3D