La “Guantanamo” nel Canale di Sicilia quel “Mare chiuso” di casa nostra

fonte: laRepubblica.it/MondoSolidale

ROMA – Far conoscere al mondo la Guantanamo tricolore, fotografare il momento dei respingimenti in mare dei migranti partiti dalla Libia, mostrare cosa ci fosse dietro quella parola, capitolo integrante di un trattato con la Libia voluto fortemente nel 2009 dal governo Berlusconi e votato praticamente all’unanimità dal Parlamento (87%, con le sole eccezioni dei Radicali, IDV e pochissimi esponenti del PD). Ma anche documentare la vita dei respinti nei campi di raccolta in Libia e in Tunisia. Era questo il progetto nella mente di due tra le più brillanti firme del giornalismo e della cinematografia italiana, Stefano Liberti e Andrea Segre. E quel piano, a scorrere i molti premi già ottenuti da Mare Chiuso a due mesi dall’uscita nei cinema italiani (ACRA, De Seta Bif&st, Premio Rossellini, Miglior Documentario Bolzano Film Festival) è ben riuscito.

La concomitanza. La data dell’uscita nelle sale italiane, 15 marzo 2012, segna la quasi perfetta concomitanza con la storica sentenza – 23 febbraio – con cui la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo in riferimento ai respingimenti avvenuti in mare tra il maggio 2009 e settembre 2010, condanna all’unanimità l’Italia per le gravi violazioni della Convenzione sui diritti umani. “Avevamo scelto di seguire le fasi del processo – spiega Stefano Liberti – e siamo andati a varie riprese a Strasburgo: nel film, infatti, si vedono anche fasi del dibattimento. Ma la coincidenza è stata una sorpresa”.

Commozione e rabbia. I 62 minuti di filmato, somigliano molto all’ondeggiare dei barconi carichi di etiopi, eritrei e somali bloccati a un passo dall’agognata Lampedusa e ricacciati verso la Libia a suon di manganellate, colpi di pistole elettriche e bastonate dalla Guardia Costiera e la Guardia di Finanza italiane. Si passa dai racconti dolorosi, composti, dignitosi dei respinti a immagini poetiche ed evocative di scene familiari, si va dai filmati di repertorio di Silvio Berlusconi accanto a Muammar Gheddafi che passeggiano in rassegna dopo aver siglato accordi, alle fasi del processo intentato da 24 respinti ricorrenti (divenuti nel frattempo 22 perché due sono morti) in cui uno dei bravissimi avvocati della difesa definisce i respingimenti “Guantanamo in alto mare”. “In effetti è così – è sicuro Liberti – in quei mesi c’è stata una vera sospensione del diritto. Tutti i nostri intervistati ci hanno raccontato delle brutalità subite quando sono stati intercettati nel Canale di Sicilia e presi in consegna da navi italiane. Resisi conto che non stavano dirigendosi verso la Sicilia, ma verso la Libia, hanno provato a ribellarsi, qualcuno addirittura a gettarsi in mare per suicidarsi”.

“Italiani brava gente”. A quel punto il personale di mare italiano, ha smesso i panni del finto operatore umanitario e, in ottemperanza a nuovi ordini, ha cominciato a torturare, seviziare, picchiare senza pietà uomini, donne incinte, bambini. “Tutti i profughi finiti in Libia che ho intervistato prima e dopo i respingimenti mi hanno raccontato di aver subìto lì ogni forma di violenza. Il fatto di essere giunti sani e salvi a poche miglia dall’Italia e poi venire bloccati e rimandati in Libia, quindi, era peggio della morte. Da qui l’idea di fare un film documentario  su una delle pagine più oscure della nostra storia”.

di Luca Attanasio

Un bel contributo alla riflessione. Ma Mare Chiuso è anche un contributo prezioso alla riflessione sui diritti umani, al di là della vicenda che ci riguarda direttamente, aprendo una finestra sulla drammatica condizione dei profughi nel mondo. “Scoppiata la guerra in Libia – racconta il regista – molti dei migranti detenuti nelle carceri sono scappati, la maggior parte è finito a Shusha, un campo di raccolta in Tunisia. Doveva essere smantellato nel 2011 ma è ancora lì. I circa 10.000 profughi sono in attesa di resettlement e vivono da mesi, alcuni da un anno e mezzo, in mezzo al deserto del Sahara in condizioni impossibili sotto le tende dell’Acnur. Moltissimi fanno parte dei gruppi di respinti dagli italiani tra il 2009 e il 2010”. È la banalità del male che si accanisce contro inermi protagonisti di storie il cui svolgersi può apparire inverosimile per quanto drammatico, inferendo l’ultima crudeltà, quella della lentezza burocratica.

Contiguità con il precedente governo. “Ciò che è preoccupante – conclude Liberti – è che l’attuale governo, pur volendosi attenere alle decisioni di Strasburgo e non volendo attuare respingimenti, nel riformulare il “Trattato di amicizia” con la Libia del 2009 pensa di delegare a quel paese il blocco alla partenza”.  L’assunto è che ci si trovi in una sorta di emergenza via mare permanente. “Ma è un clamoroso falso, i numeri dimostrano il contrario. Un paese come l’Italia, credo, qualche decina di migliaia di profughi che scappano dalle situazioni più drammatiche del mondo via mare, se li può permettere”.