di Ilaria Biancacci
Erdoğan e Öcalan cercano di instradare il conflitto tra Ankara e i curdi verso una soluzione politica. Le tensioni regionali (Siria), le prossime elezioni e i rischi di sabotaggio. Le diffidenze reciproche. In palio anche il premio Nobel per la Pace.
“Biji Serok Apo! Lunga vita al presidente Apo!” Il ritmo dello slogan per il leader del Pkk, Öcalan, scandisce la marcia di centinaia di migliaia di persone che si sono riversate all’interno del “Diyarbakir Nawroz Parki” per celebrare una delle feste più importanti della tradizione curda: il Nawroz. Un nuovo anno, una nuova primavera, che porta in grembo il seme della pace e della cooperazione.
Il 21 marzo 2013 è una data simbolica che potrebbe entrare nei libri di storia e addirittura cambiarla: dopo 30 anni di lotta le parole di Öcalan hanno aperto una nuova strada che vede una definitiva risoluzione del conflitto curdo, con il beneplacito del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, che respira già aria di Nobel. Infatti, il Nobel per la Pace per il 2013, secondo il segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjiorn Jagland, potrebbe andare al premier turco se riuscisse a trovare un’uscita politica al conflitto curdo. Se le trattative avviate tra Ankara e Öcalan dovessero concludersi con una risoluzione pacifica delle ostilità, Stoccolma potrebbe aprire le porte al leader del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp).
“Oggi inizia una nuova era. Dopo un periodo di resistenza armata, apriamo una porta verso la lotta democratica. Siete pronti a rispondere alla mia chiamata?”. Quando i due deputati del Partito per la democrazia e la pace (Bdp), Sırrı Süreyya Önder e Pervin Buldan, hanno pronunciato le parole scritte da Öcalan, la folla ha risposto con entusiasmo sollevando in alto le mani in segno di vittoria. “È un appello definitivo, diretto e irreversibile – commenta il co-presidente del Bdp, Selahattin Demirtaş – quello lanciato dal leader del Pkk. I combattenti armati lasceranno la Turchia entro agosto, per ritirarsi in territorio iracheno. Ma il governo turco dovrà facilitare il processo, garantendo la sicurezza per i nostri combattenti”.
Il percorso di pace iniziato nel 2012, intrapreso con fiducia da Öcalan e Erdoğan, non è stato facile. Lo scorso 9 gennaio tre attiviste curde sono state uccise a Parigi: Sakine Cansiz era stata un delle fondatrici del PKK, insieme al leader storico, nel 1978; le altre due erano Fidan Dogan e Leyla Soylemez, del Centro d’informazione del Kurdistan di Parigi. Le ipotesi sui responsabili dell’attentato sono diverse: da una faida interna ai curdi alle frange più oltranziste del Partito dei Lavoratori; dallo “Stato profondo” turco ai servizi segreti iraniani e siriani, che vorrebbero punire Ankara per la sua opposizione al regime di Damasco; fino all’estrema ipotesi dell’intervento del gruppo estremista nazionalista turco dei bozkurtlar, i Lupi grigi.
L’intento dei mandanti era probabilmente quello di sabotare il dialogo, ma non ci sono riusciti. Infatti, proprio il 25 gennaio, il parlamento turco ha approvato una legge che permetterà ai curdi di usare la propria lingua per difendersi in tribunale. Una forte risposta agli attentati di Parigi che avrebbero voluto far deragliare i negoziati.
Le richieste di autonomia e di riconoscimento dei diritti presentate dai curdi sono sempre state percepite dal governo centrale come una minaccia per la stabilità e l’integrità nazionale e territoriale. Ankara ha sempre reagito con durezza, arrivando a negare l’identità etnica e culturale del popolo curdo. Basti pensare che l’anno scorso sono stati proibiti i festeggiamenti per il Capodanno curdo. Questa scelta non ha fatto altro che alimentare la tensione, già estremamente alta, nel Kurdistan turco.
Perché Erdoğan ha deciso, dopo altri tentativi falliti, di intraprendere una nuova road map per la risoluzione della cosidetta “questione curda”? Per vari motivi, a cominciare dalla situazione regionale e dall’escalation di violenza entro i confini nazionali. Il nodo cruciale, intorno al quale ruota tutta la trattativa, è la riforma della Costituzione, con la rimozione dei riferimenti etnici per la cittadinanza turca e il turco come lingua “ufficiale” ma non come “unica riconosciuta”.
L’accordo finale prevede il disarmo del Pkk e il reintegro dei suoi militanti a patto che venga eliminata ogni forma di discriminazione del sistema normativo e garantita l’istruzione in lingua curda; che vengano rilasciati i migliaia di attivisti curdi arrestati ed effettuato un reale decentramento politico. L’abbassamento della soglia di sbarramento per entrare in parlamento dal 10% al 5%, per consentire al Partito curdo di competere a livello politico, è un’altra condizione fondamentale dell’accordo. Il Pkk inoltre richiede il libero accesso ai mass media, migliori condizioni di prigionia per Öcalan e il riconoscimento legale dell’organizzazione-ombrello del Pkk chiamata “Congresso nazionale del Kurdistan”.
Le richieste dei curdi non sono orientate semplicemente verso diritti civili e politici, ma chiedono anche migliori condizioni di sviluppo. Infatti il “Kurdistan turco” ha un reddito pro-capite decisamente inferiore rispetto alla media nazionale, un’economia che si basa essenzialmente sull’agricoltura e i servizi, in particolare salute e istruzione, sono carenti. Nel giugno del 2012 il governo turco ha concesso la possibilità di introdurre il curdo come insegnamento opzionale nelle scuole pubbliche. Sicuramente un passo significativo, se si considera il fatto che è sempre stata portata avanti una politica di assimilazione verso i curdi.
L’apertura del premier turco non è stata dettata soltanto da motivi di sicurezza interna, ma anche dal cambiamento del contesto regionale, diventato sempre più pericoloso per Ankara. La crisi siriana ha generato diversi i motivi di preoccupazione: il riaccendersi dei sentimenti nazionalisti curdi, il flusso dei profughi, il freno dell’economia dell’Anatolia e le crescenti divisioni etniche. Non dobbiamo dimenticare che in Siria vivono più di 3 milioni di curdi ed è attivo il Partiya yekîtiya demokrat (Pyd, Partito dell’unione democratica), una sorta di ramo siriano del Pkk.
Il timore di Ankara è che i curdi siriani possano costituire, grazie anche all’appoggio del Krg (Kurdistan regional government) iracheno, un’enclave all’interno della Siria, portando ai confini della Turchia ben due entità curde autonome, che potrebbero risvegliare i sentimenti separatisti e costituire una nuova base per il Pkk.
Infine non bisogna dimenticare l’intenzione del premier turco di candidarsi alle elezioni per la presidenza della Repubblica del 2014, le prime a suffragio diretto. Se Erdoğan riuscisse veramente a portare a termine la road map, potrebbe arrivare alle elezioni con un’importante e storica vittoria personale. Adesso l’Akp è il promotore e protagonista di questa cruciale stagione di apertura verso i curdi. Deve saper dialogare realmente e non semplicemente imporre dei diktat e per farlo è necessario il consenso dei curdi, non deve limitarsi a dialogare solo con Öcalan, ma deve coinvolgere anche altri leader, che possano far da tramite con la popolazione e con le diverse correnti politiche che si stanno creando all’interno del movimento curdo.
Nonostante l’entusiamo con il quale è stato accolto il messaggio di Öcalan del 21 marzo scorso, sono diverse le reazioni della popolazione. Un momento agrodolce, quello del Nawroz, per un popolo che odia la guerra, ma è grato a coloro che l’hanno condotta, battendosi per i diritti di tutta la comunità. Un messaggio di pace che ha segnato l’addio al Pkk; una separazione non facile.
Senza l’autorità del Pkk i curdi si sentono improvvisamente in balia di un uomo politico turco che li ha già delusi in passato. Tra le danze e i canti riesco a parlare con la gente. Sono scettici, hanno paura di vivere un’ennesima delusione, hanno paura di essere ingannati. Lo stesso scetticismo è stato espresso da due giovani del Pkk che sono saliti sul palco durante le celebrazioni “Non ci fidiamo dell’Akp, ma abbiamo fiducia nel nostro movimento e nel nostro leader. Non accetteremo nessuna cospirazione. Se ci tradiranno sapranno che il loro amico diventerà il loro nemico”.
La diffidenza c’è, e si sente, da entrambe le parti. “Manca la fiducia completa nel governo turco – commenta Zehra Doğan, giornalista e fondatrice dell’agenzia stampa femminile Jinha – perché in passato ha tradito i combattenti. C’era stato un altro cessate-il-fuoco, e mentre i nostri guerriglieri si ritiravano, sono stati attaccati, uccisi o arrestati dall’esercito turco”.
Le buone intenzioni di Erdoğan e la sua ricerca per una soluzione della “questione curda” si malcelano dietro alcune dichiarazioni. A novembre, dopo due mesi di sciopero della fame dei prigionieri curdi, il premier ha risposto suggerendo un ripristino della pena di morte. Durante le celebrazioni del Nawroz a Diyarbakır ha contestato l’assenza di bandiere turche. Il co-presidente del Bdp, Selahattin Demirtaş, ha dichiarato che non esiste alcun problema nei confronti della bandiera turca. “È la bandiera di tutte le persone che vivono in questo paese. Non credo che imporre una misura del genere nasconda una buona intenzione. Rappresenta l’imposizione di una mentalità che porta gli uomini ad inginocchiarsi davanti al volere degli altri. Ed è proprio questo che noi curdi troviamo problematico”.
La visione della questione curda di Erdoğan è strettamente legata alla sicurezza nazionale, ma il premier dimentica un elemento fondamentale, che rappresenta la chiave di volta per risolvere questo trentennale conflitto: i diritti umani e il rispetto dell’identità. Criticare la mancanza di bandiere turche durante una manifestazione curda, dove si esprime la cultura di un popolo, è un errore. Sembra confermare che Erdoğan e il suo governo non sono pronti per una visione di solidarietà culturale e forse per una reale soluzione del problema.
O perlomeno, non sono pronti a dimostrarlo.
(Limes Rivista italiana di Geopolitica – 8 Aprile 2013)