A ben vedere, difficilmente le elezioni politiche turche del primo novembre avrebbero potuto conoscere un esito diverso. Il partito AKP del presidente Recep Tayyip Erdoğan ha conquistato la maggioranza assoluta, con 315 seggi; i kemalisti laici del CHP hanno confermato il risultato di giugno e 132 seggi, mentre i nazionalisti del MHP (partito copertura dei Lupi Grigi) esce con un numero di deputati dimezzato (42) e una grossa perdita di voti in favore dell’AKP. Il partito filo-kurdo HDP perde circa un milione di voti ma supera la soglia di sbarramento con il 10,7% dei consensi.
È uno scenario che nessun analista internazionale, né tantomeno turco, aveva previsto, per la difficoltà forse di comprendere fino in fondo il clima e lo stato d’animo che la strategia perseguita da Erdogan negli ultimi cinque mesi ha instaurato nell’elettorato e nella popolazione kurda in particolare. Nelle elezioni di giugno si erano verificati due eventi eccezionali: per la prima volta dal 2002 il partito AKP non aveva ottenuto la maggioranza assoluta e, per la prima volta grazie al Partito Democratico dei Popoli (HDP), la minoranza kurda aveva una rappresentanza unica in Parlamento. Ciò aveva significato in primis per il presidente Erdogan, dover rinunciare a una modifica della Costituzione in senso presidenziale. Erdogan si sente limitato nell’esercizio dei suoi poteri dal ruolo attribuito dall’attuale Costituzione al Presidente della Repubblica ed è deciso a vedersi attribuire anche formalmente poteri esecutivi che in parte oggi esercita di fatto in violazione del dettato costituzionale. Così il 24 Agosto, dopo mesi di fallite trattative con i partiti di opposizione, ha proclamato nuove elezioni per il primo novembre 2015.
Da allora, secondo Hevi Dilara, rifugiata politica in Italia ed esperta della questione kurda, il presidente Erdogan ha messo in campo ogni mezzo per raggiungere il suo obiettivo, agendo principalmente in due direzioni. Da una parte mettendo letteralmente sotto assedio le popolazioni del sud-est, a maggioranza kurda, con arresti, coprifuoco, bombardamenti, cui ha seguito la reazione armata per autodifesa di militanti del PKK. Il bilancio complessivo conta 253 morti fra la popolazione, e tra essi 33 bambini. Nel frattempo, gli attentati di Suruc (33 morti) e Ankara (100 morti), entrambi attribuiti ai terroristi del Daesh (acronimo in arabo dell’ISIS), ma certamente inseriti in una strategia della tensione concentrata contro il partito filocurdo. La sociologa Nazan Üstündağ ha affermato che i kurdi hanno da giugno a oggi vissuto la “Notte dei Cristalli”.
Dall’altra parte Erdogan ha condotto una propaganda fortemente pervasiva nelle zone rurali, povere e scarsamente alfabetizzate (il tasso di analfabetismo in Turchia è tuttora del 19%), facendo leva sul sentimento religioso. Autoproclamandosi come il garante dell’unità religiosa e della stabilità politica, Erdogan ha elargito promesse e demonizzato gli oppositori, assicurandosi la presa assoluta sulle popolazioni dell’Anatolia Centrale e del Mar Nero che lo hanno votato in blocco. Parallelamente ha provveduto a un’occupazione sistematica degli organi di informazione e all’epurazione di ogni voce di dissenso. In tre mesi 49 giornalisti sono stati messi in stato di fermo, due condannati per aver insultato il capo dello Stato, 35 inquisiti per lo stesso motivo e 24 si trovano attualmente dietro le sbarre per motivi politici.
Nei dibattiti pre-elettorali dei canali televisivi pubblici, ben sessanta ore sono state concesse a esponenti di AKP contro i diciotto minuti riservati alla campagna di HDP. Pochi giornalisti hanno avuto il coraggio di affermare la propria opinione tanto che, racconta ancora Hevi Dilara, si è assistito allo spettacolo desolante di una totale assenza di voci e posizioni anche blandamente critiche nei confronti del governo.
Ai fini del compimento del suo disegno assolutistico, è stato utile per Erdogan anche riuscire a dividere il partito di destra ultranazionalista MHP, operazione che gli ha consentito un vero e proprio travaso di consensi a favore del suo partito. A fine agosto il primo ministro Ahmet Davutorglu aveva cooptato nella formazione di governo come vice premier Tugrul Turkes, membro di MHP e figlio di uno dei padri fondatori del partito. Ciò aveva comportato l’espulsione di Turkes dal partito e l’avvio di una serie di dissensi interni.
In questo quadro, era difficile non sospettare alla vigilia delle elezioni, l’impossibilità che queste si potessero svolgere nel rispetto delle regole democratiche. In risposta all’appello delle organizzazioni della diaspora kurda in Europa e, tra queste, dell’Ufficio Informazioni del Kurdistan in Italia, si sono formate delegazioni internazionali con l’obiettivo di monitorare lo svolgimento delle elezioni. I report dei delegati e delle delegate parlano di numerose violazioni delle regole elettorali, denunciando innanzitutto la presenza continua di mezzi blindati e agenti dell’esercito e della polizia armati, che sostavano presso i seggi, in violazione delle norme elettorali che prevedono il divieto per le forze armate e di polizia di sostare nel raggio di 25 metri dai seggi.
Gli avvocati di Progetto Diritti, Maria Rosaria Damizia e Mario Angelelli, che hanno fatto parte della delegazione, sostengono che un elemento che ha caratterizzato in misura eccezionale questa tornata elettorale, e che non poteva non incidere pesantemente sui risultati, è stato l’accorpamento di seggi. Particolare peso una misura simile avrebbe ragionevolmente avuto in quelle zone rurali, scarsamente abitate e con una carenza assoluta di vie di comunicazione. A Demirkuyu (Derik- Mukuré in curdo), un seggio di 200 elettori, il consenso per HDP è stato assoluto e le operazioni di voto si sono svolte rapidamente e senza la presenza di militari. I presenti al seggio, una quindicina di persone, hanno raccontato che, fino alle elezioni di giugno, tutti i voti del loro villaggio andavano a Erdogan. In passato avevano creduto alle sue buone intenzioni nel processo di pace con il PKK e avevano visto in lui il leader che avrebbe posto fine alle campagne di assimilazione forzata delle minoranze (solo nel novembre del 2013 Erdogan si era reso protagonista di una storica apertura al popolo kurdo). Nonostante in questi villaggi nessuno avesse paura di dimostrare il suo sostegno per HDP, il clima la sera precedente le elezioni era mesto, l’entusiasmo di giugno era stato soffocato dai lunghi mesi di terrore che hanno lasciato traccia sugli edifici e sui fianchi delle montagne, colpite dai bombardamenti dell’esercito turco. A Malabadi i militari si sono fatti vedere solo un paio di volte, mentre a Silvan, cittadina con quarantamila abitanti distante un’ora da Diyarbakir, diversi militari sono saliti al primo piano dell’edificio sede del seggio con aria intimidatoria, ma nessuno ha raccolto le loro provocazioni. Qui il 2 novembre sono ricominciati gli scontri tra militanti kurdi ed esercito turco.
All’indomani delle elezioni, che il presidente Erdogan ha celebrato come una vittoria della democrazia, lo Stato turco appare tutt’altro che unito. La divisione dell’elettorato si è pesantemente radicalizzata in tre aree geografiche ben distinte: sulla costa egea e in Tracia hanno vinto i repubblicani del Chp, l’Anatolia centrale e il Mar Nero sono dominati dall’Akp, il sud-est del Paese dall’Hdp.
Il PKK ha dichiarato ufficialmente la fine del cessate il fuoco. Il numero dei civili uccisi dalla polizia e dalle forze speciali dal 1° novembre solo a Hakkari, Siirt e Diyarbakir sale a nove.
Il Partito democratico dei popoli (HDP) si sta preparando a contestare i risultati elettorali in sei città in Turchia e nel Kurdistan del nord, dove sussiste il forte sospetto di brogli.
I militanti del partito fanno in parte autocritica. Dopo l’attentato di Ankara del 10 ottobre scorso, il co-presidente di HDP Demirtas aveva annunciato la fine della campagna elettorale per impedire che si verificassero ulteriori violenze. Qualcuno fra i kurdi pensa che forse sarebbe stato necessario continuare a portare il programma del partito fra la gente, ma la linea di HDP è quella di non sacrificare più neanche una vita per raccogliere voti. Molti militanti hanno subito arresti, fermi, molti (circa 60) sono morti nell’ultimo anno per mano dello stato.
In risposta alla possibilità di un “referendum per la presidenza esecutiva” su indicazione di Erdoğan, gli esponenti di HDP hanno dichiarato che daranno priorità a una costituzione civile e democratica sulla base del “Progetto di costituzione” presentato nel 2011 dal DBP (Partito democratico delle regioni). Il progetto del DBP comporta un sistema parlamentare decentrato, con parlamenti e assemblee regionali.
Il secondo asse su cui si muoverà la politica dell’HDP sarà quella dell’inclusione, ponendosi come garante dei diritti delle numerose minoranze presenti in Turchia e come promotore della democratizzazione del Paese.
L’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ha affermato che quella turca è stata una campagna elettorale caratterizzata da abusi e paure significative. Anche la Casa Bianca ha espresso la sua preoccupazione per le pressioni e le intimidazioni a cui i media e i singoli giornalisti sono stati sottoposti durante la campagna elettorale. Ciononostante l’atteggiamento dell’occidente nei confronti del governo di Ankara rimane ambiguo. Rispetto alla questione siriana e all’emergenza profughi, Erdogan rimane un interlocutore quantomeno inaffidabile. E il suo autoritarismo paternalista, il suo personalismo sfrenato e la sua sistematica violazione delle regole democratiche, hanno lasciato scivolare il paese in uno di periodi più bui della sua storia.