di Vittorio Caligiuri
Contro la pretesa “neutralità scientifica”
Le migrazioni sono fenomeni che da sempre marcano la storia umana riflettendo di volta in volta il contesto storico nel quale che le determina e nel quale si verificano. Il modo in cui la questione viene affrontata all’interno del dibattito pubblico contemporaneo soffre invece proprio di astrattezza e la sua a-storicità.Per lo più ci si limita a considerare la “questione migratoria” per come questa si manifesta a partire dalla prospettiva europea – interessata allamera gestione di flussi di persone e solo nel momento in cui queste si avvicinano alle coste del mediterraneo, frontiera dell’UE, prestando scarsa attenzione alle determinanti storiche del fenomeno ed alla situazione concreta dei paesi di partenza. I fattori solitamente definiti “di spinta” – o push factors– non vengono dunque considerati alla luce della peculiare situazione di paesi d’origine e della loro storia, quanto forzatamente ricondotti a due categorie: quella della povertà, che in base ai dettami della teoria economica mainstreamviene ricondotto alla posizione arretrata di questi paesi sulla diritta ed universale “via dello sviluppo”, e la categoria “umanitaria”, anche questa determinata dalla supposta condizione di arretratezza culturale e politica che, in questo tipo di ottica, non può che accompagnare questi paesi. Tali paradigmi analitici, evitando di chiamare in causa le strutture del presente e la loro iniquità, impediscono di cogliere il reale significato del fenomeno e di comprendere il perché del fallimento di un certo tipo di cooperazione allo sviluppo quale quella messa in atto dall’EU, la quale identifica la crescita economica con l’economia di mercato e considera quest’ultima la condizione necessaria e sufficiente per il miglioramento delle condizioni di vita generalidella popolazione, nonché per la promozione dello stato di diritto. Differentemente, l’analisi storica e della situazione concreta dei paesi di partenza dei migranti di oggi rivelerebbe facilmente comeanalisi e categorizzazioni del fenomeno “volgari” – una su tutti la definizione di “migrante economico” – non abbiano valore se non all’interno di una narrazione falsamente neutrale quale quella oggi propugnata dai paesi occidentali, che, interessata alla perpetuazione del presente, non può mettere in discussione le strutture economiche attuali né tantomeno l’interpretazione strumentalmente astratta ed esclusiva di quei diritti che proprio ai migranti non vengono riconosciuti. Tutto ciò secondo chi scrive implica la necessità che alle analisi specialistiche si affianchi un’analisi ed una prospettiva politica, la quale non rimanendo ristretta nei confini dei singoli paesi occidentali o, al più, dell’EU, si basi sulla solidarietà internazionale al fine di agire da un lato e dall’altro “del mediterraneo” sulle contraddizioni che scuotono il presente.
Le migrazioni alle quali stiamo assistendo sono infatti esito diretto o indiretto della struttura economica – e conseguentemente politica – internazionale. In tal senso, il sottosviluppointeso non come l’assenza ma come tipologia specifica di sviluppo economico dipendenterisulta essere null’altro che l’altra faccia, quella che interessa la parte subordinata del mondo, di ciò che chiamiamo “sviluppo”. Ed è proprio per questo che le ricette alla base di ciò che dal dopoguerra è stata la “cooperazione allo sviluppo”, non sono in grado di affrontare efficacemente il problema costituito dall’ineguale ed iniqua distribuzione della ricchezza tra paesi, in quanto basata sulla diffusione di conoscenze, strutture organizzative, valori, tecnologie e capitali al fine di uniformare il paese sottosviluppato alle caratteristiche strutturali presunte – come nel caso del libero scambio, in realtà adottato dall’Inghilterra ad industrializzazione già avvenuta, nel 1846 – che avrebbero condotto i paesi avanzati allo sviluppo economico. Tali ricette, oltre a presupporre un complesso di superiorità da parte dei paesi capitalistici avanzati, implicano il trasferimento di ricchezza dal paese che dovrebbe svilupparsi a quelli sviluppati, rafforzando condizioni e strutture del sottosviluppo.
Lo sviluppo del capitalismo tra metropoli e colonie
Come affermato dallo storico francese Fernand Braudel, i movimenti migratori nel periodo che precede il XVI secolo sono ciò che scandisce il “ritmo della storia”. Alla base del fenomeno sarebbe la relazione tra andamento demografico e disponibilità di risorse: nel momento in cui la sproporzione tra i due fattori diviene eccessiva si verifica la migrazione di una parte della popolazione. Tale dinamica, qui estremamente schematizzata, ha avuto manifestazioni storiche differenti, rimanendo tuttavia sempre riconoscibile. Con l’età moderna, tuttavia, il fenomeno conosce un cambiamento di carattere qualitativo, legato a due fattori indissolubilmente legati: l’affermazione di un’economia capitalista, prima nella forma mercantile e poi industriale, e l’espansione imperiale e coloniale delle potenze occidentali ed il conseguente sfruttamento delle persone e delle risorse dei territori assoggettati. Il modo in cui il percorso di sviluppo realizzatosi nei differenti paesi in conseguenza della posizione che ricoprivano all’interno del medesimo circuito economico e politico mondiale è di particolare interesse per chi voglia rintracciare le ragioni e le origini dei movimenti migratori che interessano oggi i paesi del terzo mondo (espressione da preferire a quella ideologicamente forte di “paesi in via di sviluppo”, come si vedrà in seguito) – un tempo destinazione di movimenti migratori che dallametropoli si trasferivano più o meno forzatamente nella colonia.
Infatti, sebbene si stia parlando di una dinamica storica della cui complessità e varietà non è qui possibile tener conto, è necessario sottolineare l’importanza del fenomeno della colonizzazione – sia nel caso in cui questa si sia verificata sotto forma di una dominazione diretta, sia in forma indiretta. L’esistenza delle colonie viene di fatto insegnata in occidente come un fatto di secondaria importanza, periferico e collaterale rispetto alla storia europea. Al fine di comprendere il fenomeno migratorio, risulta invece necessario considerare la centralità delle colonie nella storia mondiale, e nella storia (e nel presente) del capitalismo e del liberalismo – inteso qui non nella sua forma crociana, volta a slegare il rapporto tra concezione politica, politiche economiche e rapporti sociali. In tal senso basti pensare all’importanza assunta dal commercio triangolare ed in particolare dalla deportazione di milioni di schiavi africani nelle piantagioni americane, il cui sfruttamento si rivelò fondamentale nel determinare e permettere il processo di accumulazione che porterà alla rivoluzione industriale. Per capire quanto profonda tale contraddizione sia in quella che con autocompiacimento ama definirsi la “cultura occidentale” basti pensare che nel primo documento ufficiale della storia in cui viene proclamata l’uguaglianza tra tutti gli uomini – la costituzione americana – questa è affiancata dall’affermazione della schiavitù.
A legare regioni dominate e metropoli coloniali era quindi una doppia relazione: quelle non solamente assicuravano, a basso costo e con effetti spesso devastanti, le materie prime necessarie al funzionamento delle industrie occidentali ed i prodotti alimentari necessari al sostentamento della crescente popolazione urbana, plasmando le proprie economie in base alle necessità della metropoli, ma anche mercati di sbocco preferenziali protetti dalla concorrenza per i prodotti delle nascenti industrie. In tal senso è importante notare come gli apparati produttivi dei paesi industrializzati si siano sviluppati tutti in larga misura in un contesto protetto dalla concorrenza, ciò che invece è stato negato a partire dalla metà del XIX, da quando si è affermata (ad opera dell’Inghilterra, desiderosa di aprire nuovi mercati alle sue produzioni industriali, suo araldo armato) – la retorica del libero scambio, ai paesi di recente indipendenza. Lo sviluppo economico di cui hanno beneficiato i paesi occidentali sarebbe pertanto esito del trasferimento di surplus dai paesi del Terzo Mondo ai paesi colonialisti nonché nella loro situazione di soggezione e sfruttamento, a differenza da quanto affermato dalle ricostruzioni di sapore weberiano tipiche del discorso liberista sulla “cultura d’impresa”.
Sottosviluppo, disuguaglianza e sfruttamento: una particolare traiettoria di sviluppo
Le società coloniali e post-coloniali non sono mai state, in altre parole, semplicemente la periferia del “Primo Mondo”, rappresentando piuttosto l’altra faccia, quella nascosta, del medesimo circuito economico: il sottosviluppo di quelle era ed è condizione necessaria per lo sviluppo della metropoli ed esito delle necessità che quest’ultimo – e le sue modalità – presuppone. Guardando a queste dinamiche e lavorando a partire dalle analisi dei movimenti d’emancipazione del Terzo Mondo, numerosi studiosi – tra i quali Amin, Arrighi e Frank – coniarono il termine di sottosviluppo,indicante non un semplice giudizio comparativo ma precisamente la modalità di sviluppo che, in virtù del dominio militare, economico e politico, i paesi del Terzo Mondo erano stati costretti a seguire. Tali considerazioni erano in linea con quanto rilevato negli anni ‘50 dalla commissione economica dell’ONU per l’America Latina (ECLA): un paese o una regione seguono una traiettoria di sottosviluppo nel momento in cui la strategia di sviluppo economica è esito dell’influenza, diretta o indiretta, di un altro paese o imprese straniere (per esempio imprese monopolistiche) che ne beneficiano. Le strutture economiche che ne risultano sono solitamente identificabili in un’economia in larga parte basata sull’export di materie prime necessarie alla produzione industriale ed ai consumi dei paesi sviluppati(il che implica una forte tendenza alla monocoltura o dipendenza dall’esportazione di prodotti estrattivi) e, conseguentemente, in un’elevata concentrazione della ricchezza nelle classi che collaborano alla perpetuazione di tale schema economico. Questa struttura produttiva, basata sulle necessità degli acquirenti e dei capitali esteri e non sui bisogni del paese, impedisce lo sviluppo tecnico, economico e sociale dello stesso. In tale analisi, il sottosviluppo non è dunque il semplice esito di fattori esterni, ma della relazione tra questi e le decisive dinamiche interne: determinate classi – intermediarie tra paesi sottosviluppati e metropoli – avevano ed hanno un interesse diretto nel mantenimento di una traiettoria di sottosviluppo, dalla quale dipende la loro ricchezza.
Quest’ultimo argomento non può essere qui approfondito, ma è d’importanza fondamentale ricevendo grande attenzione durante le lotte per l’emancipazione degli anni ’60 – in tal senso si menzionano solamente le analisi di Ben Barka, Kwame Nkruma e Amílcar Cabral. Il ruolo delle classi più ricche nei paesi di sviluppo rappresenta il trait d’uniontra questi e la metropoli e, come dimostra al giorno d’oggi la vicenda tunisina, non vi può essere un cambiamento politico sostanziale qualora la struttura socio-economica di cui sono espressione non venga cambiata. Nel caso tunisino quelle stesse classi, con le loro clientele interne ed i loro rapporti esterni, sono rimaste al potere, continuando ad opprimere e sfruttare la popolazione sotto la maschera di una formale democrazia anche dopo la caduta del regime avvenuta nel 2010, regime di cui erano la base sociale, beneficiando insieme ai loro partner europei dell’allargamento del mercato e dell’integrazione economica nei mercati internazionali.
Lungi dal mettere fine al sottosviluppo ed alle influenze esterne, il conseguimento dell’indipendenza raggiunto tra la fine del secondo conflitto mondiale e la fine degli anni ‘70 evidenziò con forza ancora maggiore l’iniquità dei meccanismi economici e della rete degli scambi internazionali, problema con il quale le forze dei del Terzo Mondo non potevano fare a meno di confrontarsi: i meccanismi di mercato, la divisione internazionale del lavoro ed il meccanismo del debito vennero sempre più identificati come strumenti di subordinazione ed ostacolo allo sviluppo industriale dei paesi di nuova indipendenza. La produzione dei paesi del Terzo Mondo era – ed è; si sta parlando di dinamiche attive ancora oggi – largamente basata sull’esportazione diun singolo o pochi prodotti non industriali o a basso valore aggiunto, esito delle strategie economiche perseguite durante il periodo di subordinazione coloniale. La dipendenza dalle importazioni che ne risulta, aggrava gli squilibri preesistenti per via del trasferimento del reddito nazionale verso i paesi industrializzati, rendendo di fatto impossibile lo sviluppo di un’industria nazionale, decisiva per ridurre l’influenza neocoloniale ed al contempo ridurre l’esposizione delle economie nazionali alle fluttuazione dei prezzi internazionali delle materie prime, contribuendo a segnare la dipendenza di questi paesi dagli aiuti e dai prestiti internazionali, a loro volta strumenti di pressione. La consapevolezza di tali meccanismi alla base della prosecuzione sostanziale del controllo politico e dello sfruttamento materiale – e la discussione di questi in un significativo numero di sedi, tra i quali si segnala la “Declaration for the Establishment of a New International Economic Order” ed al relativo piano d’azione approvato dal Consiglio Generale delle Nazioni Unite nel 1974 – portò ad un vero e proprio scontro tra Terzo Mondo e paesi occidentali, sordi alle richieste di dar vita ad un sistema di scambi e trasferimento della ricchezza più equo, che non fosse alla base di un continuato percorso di sottosviluppo – nell’accezione sopra impiegata – ed impegnati nella costruzione e nella difesa politica e militare delle strutture neocoloniali.
Neocolonialismo nel “Terzo Mondo” e reazione nel “Primo”
Precisamente l’esito di questo scontro, e la vittoria dei paesi dell’ “occidente” è alla base perpetuarsi della condizione di sottosviluppo – qui inteso in nella sua “volgare” accezione comparativa – di cui oggi diffusamente si parla, nonché dei movimenti migratori che ne costituiscono, almeno per le popolazioni dei paesi a più alto reddito, l’elemento più difficilmente ignorabile. Quello che qui viene definito come scontro è un insieme storico complesso di lotte e battaglie politiche la cui repressione, in moltissimi casi estremamente violenta, è stata nella narrazione diffusa impropriamente ricondotta sotto il rassicurante ombrello degli scontri condotti nelle periferie nel contesto della guerra fredda, una pagina che con leggerezza viene sorvolata nel dibattito pubblico dei paesi occidentali così come nei programmi scolastici e nelle pubblicazioni accademiche – ormai prigioniere di considerazioni “culturaliste” oltre che dedite al solo studio di casi particolari. Eppure, qualora la questione fosse oggetto di libero dibattito, sarebbe impossibile negare che la decolonizzazione e l’interruzione del percorso intrapreso dai paesi del Terzo Mondo verso una reale emancipazione siano tra le dinamiche storiche più importanti del XX secolo, un’importanza che va ben oltre la semplice constatazione, pur di per sé significativa, che una quota superiore all’80% della popolazione mondiale sia stata direttamente interessata, prima della seconda guerra mondiale, da un qualche tipo di dominio coloniale. Proprio quelle dinamiche, identificate come la ragione principale del reciproco legame tra sfruttamento e sotto-sviluppo saranno riproposte, sebbene in forma nuova e in maniera persino più acuta negli ultimi decenni del secolo.
La globalizzazione contemporanea nasce all’inizio del decennio ’80 sancendo la definitiva sconfitta delle rivendicazioni dei paesi del Terzo Mondo, ora rinominati “in via di sviluppo” quasi ad indicare l’ipocrisia implicita nell’idea di uno sviluppo basato sulla liberalizzazione di un mercato basato su una concezione astratta di uguaglianza tra gli agenti e proposto come naturale. Quello che si realizza è il passaggio da una dinamica dominata dal trasferimento di parte del reddito nazionale sulla base del passivo della bilancia commerciale ad una dinamica marcata dalla nuova importanza assunta dai mercati internazionali dei capitali, al contempo ridefinendo la “divisione internazionale del lavoro”. Come scritto da Ben Salah, fautore del tentativo di decolonizzazione economica condotto in Tunisia durante gli anni ‘60, si “modernizza la colonizzazione”che da agraria diventa industriale e turistica. Così ciò che si realizza nell’intervallo di tempo che va dall’imporsi dei meccanismi di mercato ed il flusso internazionale di capitali – sancito dalla fine della convertibilità del dollaro prevista dagli accordi di Bretton Woods, nel 1971 – e che, passando per le speculazioni sul debito pubblico degli stati del terzo mondo, culmina nelle politiche di “aggiustamento strutturale” di IMF e Banca Mondiale è un sistema internazionale basato su basso costo del lavoro e concorrenza fiscale al ribasso volta ad attirare capitali sempre più mobili, sempre più “liberi”. Alla base di entrambi questi fattori vi è la natura dell’attuale sistema economico il quale, contrariamente a quanto vorrebbero semplicistiche ed “eurocentriche” analisi di carattere culturalista, è inevitabilmente e per essenza un sistema profondamente differenziante. Il fenomeno interessa entrambe le facce della medaglia: i paesi sviluppati e quelli sottosviluppati.
Mutata la faccia del sottosviluppo, non può che mutare quella dello sviluppo, l’altra faccia dello stesso sistema economico: dagli anni ’70 quella che si realizza è una riduzione generalizzata del costo del lavoro in termini relativi. Gli investimenti ed i profitti realizzati nei paesi “in via di sviluppo” poggiano proprio sul basso costo del lavoro e sulla libera circolazione di merci e capitali – vengono costruiti impianti ad alta intensità di manodopera ed a basso contenuto tecnologico – e sulla costruzione di una struttura economica che sia favorevole ai capitali, la cui realizzazione è garantita dalle due organizzazioni internazionali attraverso le applicazioni del cosiddetto “Washington Consensus” e, mentre il colonialismo “diventa industriale”, anche i diritti dei lavoratori occidentali, i quali avevano sino ad allora beneficiato in maniera crescente dell’abbondanza derivante dallo sfruttamento del Terzo Mondo, subiscono l’assalto del neoliberismo. Nel assetto che nel si disegna nel corso degli anni ’80, la remunerazione dei capitali viene presentata come principale garanzia di sviluppo e prosperità; conseguentemente le spese sociali vengono tagliate ed i sistemi di tassazione vengono modificati in favore dei redditi più alti. L’idea paradossale è quella secondo cui l’accentramento stesso della ricchezza sia alla base della sua distribuzione, la quale avverrebbe naturalmente – secondo i supposti meccanismi di mercato – dall’alto verso il basso (movimento teorizzato come trickle-down, gocciolamento). Il processo di riforma dell’economia mondiale verificatosi tra gli anni ’80 e la crisi finanziaria del 2008 ha avuto come effetto necessario, nei paesi ricchi, la sostituzione dei redditi con il credito, avvenuta con la doppia finalità mantenere alti i consumi e permettendo la remunerazione del capitale mediante cartolarizzazione dei mutui. Proprio da tale meccanismo perverso è scaturita la crisi finanziaria del 2008. Lo smantellamento dello stato sociale, la mancata crescita dell’occupazione e la sua diminuita qualità non sono che una della facce di un modello economico globale la cui affermazione ha messo profondamente in crisi i modelli democratici occidentali, colpiti nelle loro stesse ragioni d’essere ed al contempo dimostrando come l’illusione nutrita durante il “30 gloriosi” dai partiti social-democratici dei paesi del primo mondo, quella di poter fare a meno di considerare le lotte del terzo mondo come esiziali e considerare come proprio spazio esclusivamente quello nazionale, fosse errata proprio in virtù del fatto che i paesi ricchi lo sono all’interno di un sistema economico chiuso, proprio perché globale.
Riflesso di tale fallimento e dell’egemonia politica e culturale delle forze che sostengonole politiche neoliberiste in Occidente è il fatto che tra le più attive forze della (contro) riforma dagli anni ’90 figurino quelle del campo progressista che nel nuovo contesto non hanno saputo o voluto rappresentare più gli interessi delle classi lavoratrici. L’esito, affermatosi dopo che la crisi del 2008 è stata usata per accelerare il processo di trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto, è stato il sovranismo, utile strumento che, nell’attribuzione di responsabilità ai migranti ed in proposte di chiaro carattere neoliberista (una su tutte la “flax tax”), ha come funzione quella di incanalare la rabbia e sfruttarla per proseguire il percorso intrapreso.
Sottosviluppo e migrazioni: una questione politica
Il sottosviluppo, sconvolgendo continuamente la maggior parte delle società mondiali è dunque uno degli elementi alla base di quelli che vengono determinati “push factors”: l’insieme dei fattori che spingono masse di persone a migrare. Quel che si sta suggerendo non è un approccio riduzionista a fattori inevitabilmente differenti ed intrinsecamente legati alla situazione storica e materiale di ogni singolo contesto, ma mostrare come tutti questi elementi irriducibilmente differenti siano fortemente correlati ad un dato che invece è generale, vale a dire la condizione di sfruttamento e l’ineguaglianza implicita in un sistema economico basato sull’estrazione ed il trasferimento del valore. Una struttura economica determinata da esigenze ed imperativi esterni non può che creare attriti e sconvolgimenti nelle nazioni che tale modello di sviluppo subiscono e che direttamente o indirettamente porta con sé conflitti, povertà e situazioni caratterizzate dalla forte oppressione politica. Allo stesso modo l’estrazione selvaggia di valore implica lo sfruttamento delle risorse naturali e la distruzione dell’ambiente che sempre più influisce sulla vita delle popolazioni delle nazioni sottosviluppate. Quel che si vuole suggerire è che la questione del sottosviluppo e ciò che questa implica rappresenta, insiemealla questione ambientale, la contraddizione principale del nostro tempo, base necessaria al fine di valutare le implicazioni del modello di sviluppo economico, sociale e culturale attuale. Ed è alla luce di tali questioni che il tema delle migrazioni deve essere considerato – slegandolo dalle falsamente neutrali considerazioni di carattere più o meno velatamente securitarie e dalle promesse di una “cooperazione internazionale” che essendo basata sul debito ed imponendo un preciso modello di sviluppo non mette in discussione il sottosviluppo in quanto eredità storica, perpetuandone le condizioni ed aggiornandole alle nuove necessità del processo di accumulazione.
Per questo è impossibile pensare ad una politica che, ripercorrendo gli errori del passato, si illuda di apportare un qualsivoglia miglioramento oggettivo agendo solamente, nella più rosea delle ipotesi, all’interno dello spazio europeo o singoli paesi che lo compongono. È solo attraverso la solidarietà ed il coordinamento politico che le contraddizioni menzionate sopra possono essere superate – attraverso la radicale messa in discussione della posizione relativa ed assoluta dei paesi ad alto reddito e delle loro politiche, nonché degli interessi dei capitali che questi rappresentano. In questo senso la questione dell’immigrazione rappresenta il primo banco di prova, il primo passo nella costruzione della società di domani e di quella solidarietà che risulta necessaria per mettere in discussione un sistema che non può che produrre disuguaglianza.