“Decreto Minniti” e garanzie giurisdizionali dei richiedenti asilo

Il 5 dicembre scorso abbiamo realizzato, presso il Dipartimento di Giurisprudenza di Roma Tre e in collaborazione con lo stesso Dipartimento, un convegno dal titolo Decreto Minniti” e garanzie giurisdizionali per i richiedenti asilo. L’incontro nasceva dall’esigenza di proporre dei rilievi, elaborati in ambiti di riflessione eterogenei e complementari, intorno alla legge 46 del 13 aprile 2017. All’incontro sono intervenuti docenti universitari, una giudice della Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del Tribunale di Roma e gli avvocati di Progetto Diritti per discutere dei profili di illegittimità, delle novità procedurali, delle impugnazioni davanti al Tribunale civile e degli strumenti del difensore alla luce delle nuove norme. Pubblichiamo qui per esteso gli interventi dei relatori.

 

Introduzione di Arturo Salerni, avvocato di Progetto Diritti

Il mio compito è collocare questo intervento normativo che nasce a febbraio scorso, all’interno di quello che è successo durante il 2017 con riferimento alla materia della protezione internazionale. Un anno di svolta da tanti punti di vista considerato il particolare attivismo che il nostro governo ha avuto rispetto al tema dell’immigrazione e della protezione internazionale con la caratterizzazione dell’attuale titolare del dicastero dell’interno.

Consideriamo le fasi che hanno preceduto questo intervento normativo, per quanto riguarda le politiche delle migrazioni e in considerazione della densità e dell’incidenza del fenomeno migratorio. Dal 2007 2008 abbiamo voluto una significativa riduzione del flusso delle migrazioni, riduzione comprensibile e dettata dalla mancanza di un’espansione economica. In coincidenza con i grandi sconvolgimenti della primavera araba abbiamo registrato un afflusso con numeri significativi ma non comparabili con le ondate migratorie precedenti. La politica migratoria funzionava su un impianto che avrebbe dovuto favorire l’incontro tra domanda e offerta. L’ ingresso regolare avrebbe dovuto essere collegato al funzionamento di questo meccanismo. Un incontro tra datori di lavoro italiani e aspiranti lavoratori stranieri sulla base di una chiamata nominativa. Questo sistema non ha funzionato. I regolari di oggi sono gli irregolari di ieri passati attraverso la sanatoria. La legge Bossi-Fini si accompagnò alla più grande sanatoria che coinvolse nel 2002 600mila persone. Il pacchessto sicurezza e il decreto Maroni hanno determinato ulteriori restringimenti con la regolarizzazione di sole colf e badanti negli anni 2008 – 2009. L’impianto normativo del nostro Paese si è sempre rilevato inadeguato nella gestione del fenomeno migratorio, insistendo peraltro sula distinzione fra migranti economici e rifugiati. Il Decreto Minniti è una cornice per restringere e rendere ancora più complesse le procedure di riconoscimento della protezione internazionale. Abbiamo alcuni elementi di semplificazione che si collocano prima del procedimento giurisdizionale, alcuni che si pongono all’interno del procedimento giurisdizionale (primo fra tutti l’abolizione del grado d’appello). Ma nel complesso quest’intervento mette in discussione il diritto d’asilo che è fondante di uno stato di diritto e di un sistema costituzionale moderno. Il diritto d’asilo è visto nella nostra costituzione in termini molto ampi per tutelare tutti coloro che non godono delle libertà fondamentali nel proprio Paese. Il decreto è in sintonia con il Migration Compact, accordo stipulato per spostare verso sud le barriere e con gli accordi col governo Serraj.

Ma il 2017 è stato anche l’anno della criminalizzazione di coloro che salvano le vite nel Mediterraneo, coloro che forzando alcune regole formali, tentano di difendere quel diritto che primariamente il nostro Ordinamento dovrebbe difendere. Insieme all’avvocato Angelelli difendo i genitori i cui figli persero la vita nel 2013 a poche miglia da Lampedusa e da una nave della marina italiana che non interveniva per un presunto conflitto di competenze con Malta. Contemporaneamente mi trovo a difendere Don Mosé Zerai, l’”Angelo dei profughi”, sotto processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. In questo quadro va analizzato quest’intervento normativo che io credo abbia bisogno di forti elementi di cambiamento per favorire la sostanza del riconoscimento delle situazioni di sofferenza violazioni dei diritti che devono portare all’ottenimento del diritto d’asilo. La nostra attenzione si deve sposare sul diritto alla vita che purtroppo è stato spesso sacrificato da piccole esigenze create ad arte per piccoli tornaconto elettorali.

 

Mario Angelelli, Avvocato di Progetto Diritti, moderatore

Rispetto al decreto Minniti mi sembra definitiva la ripartizione tra salvati e condannati, fra coloro che hanno diritto alla protezione internazionale e tutti gli altri, cosiddetti migranti economici. Noi che ci occupiamo da 26 anni di immigrazione sappiamo che prima c’erano alle sanatorie che in qualche modo colmavano il vuoto legislativo e i decreti flussi (gli ultimi due hanno peraltro riguardato solo l’ingresso di lavoratori stagionali). Il Decreto Minniti sancisce il fatto che chi è in Italia non per chiedere una qualche di forma protezione internazionale è irregolare. Inoltre questo decreto parte dal presupposto che siano in corso due invasioni: un’invasione fisica di masse provenienti dal Sud del mondo e un’invasione giudiziaria, di decine di migliaia di cause di richiedenti asilo che si vedono respinta la domanda di protezione internazionale dalle commissioni territoriali. Avverso questa seconda invasione I dati sono precisi. L’ufficio statistica del CSM ci dice che sono 46.000 ricorsi nel 2016 che sono tanti ma non rispetto al numero delle cause civili pendenti che sono, ad oggi, 3.800.000.

 

Simona Sinopoli

Giudice Sezione Specializzata Protezione Internazionale, Tribunale di Roma

Le sezioni specializzate istituite dalla L. 46/2017 (art. 1, 2, 3, 4) e le impugnazioni davanti al Tribunale civile

Dal 2010 al 2016 sono state 360mila le richieste di asilo. Di queste il 40% è stato accolto dalla Commissione territoriale. Il 35% è stato portato davanti a tribunali. Il 53,17% dei richiedenti ha vinto la causa in tribunale. Nel 90% dei casi l’appello ha confermato la decisione del Tribunale. Quindi la decisione in I grado è determinante. Uno su tre riesce riesce ad ottenere la protezione internazionale.

Lo scopo della legge 46 del 2017 era dichiaratamente l’accelerazione dei tempi del procedimento attraverso la creazione delle sezioni specializzate e il mutamento del rito. È una questione molto complessa che richiede un’alta professionalizzazione dei giudici che si occupano di questa materia, ma anche degli avvocati. La decretazione d’urgenza e il ricorso al voto di fiducia, hanno impedito la consultazione seria degli operatori che si occupano della materia e la formulazione di rilievi ex ante. Si è persa così l’occasione per la concentrazione delle tutele perché le sezioni specializzate continueranno ad essere competenti nelle materie in cui erano competenti già da prima e non si scalfisce la ripartizione delle competenze con il Giudice di pace che resta competente per le espulsioni e con i giudici amministrativi che restano competenti in materia di permesso di soggiorno in generale. Presso il Tribunale di Roma è stata istituita la sezione 18ª che in realtà è una costola della I sezione civile.

Per la protezione internazionale dopo che si era passati al rito sommario, si è tornati indietro al 2011, al rito camerale e la competenza in materia è diventata collegiale. Probabilmente lo si è fatto per compensare l’abrogazione dell’appello. Il rito si applica anche alle cause relative all’impugnazione dei provvedimenti che determinano al giudice competente a conoscere della domanda di protezione internazionale in base al Dublino III.

Il primo problema si è posto in base alla disciplina transitoria. Il nuovo rito, infatti, si applica alle controversie a partire dal 18 agosto 2017, si ha riguardo quindi alla data del deposito. Mentre prima alle controversie aventi a oggetto questa materia si applicava la sospensione feriale dei termini, alle controversie introdotte dopo tale data la sospensione feriale non si applica. Che succede se il provvedimento da impugnare è stato notificato prima dell’entrata in vigore della legge ma i termini per impugnare secondo la vecchia normativa sarebbero scaduti durante il periodo feriale? L’articolo 21 del decreto legislativo 13 del 2017, modificato dalla legge 46 del 2017, prevede che l’art. 35 bis entri in vigore dall’agosto del 2017. A questa norma si prevede la non applicabilità della sospensione feriale. La questione è oggetto di dibattito. L’orientamento della I sezione è ritenere che i termini per impugnare i provvedimenti notificati fino al 17 agosto 2017 debbano essere calcolati secondo la vecchia normativa, anche se ai procedimenti che verranno instaurati si applicherà il nuovo rito. Il termine per impugnare è 30 giorni salvo i casi previsti dall’articolo 28 bis comma 2 del DLgs 25 del 2008. È iI caso in cui il ricorrente sia trattenuto ai sensi dell’art. 6 del DLgs 142 del 2015 nei CPR. In questo casi il termine diventa di 15 giorni. Con il deposito tempestivo del ricorso si ha la sospensiva dell’atto impugnato. Ci sono casi in cui la sospensione non è automatica che sono quelli previsti dal comma 3 del nuovo art. 35 bis:

  1. impugnazione proposta dal soggetto trattenuto nei CPR di un provvedimento che dichiari l’inammissibilità della domanda di protezione, ovvero che la dichiari affetta da manifesta infondatezza
  2. Domanda presentata dopo che il richiedente è stato fermato per aver eluso I controlli alla frontiera o in condizione di soggiorno illegale al solo scopo di impedire l’esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento. In questi casi la sospensiva non è automatica, perché si presuppone per legge la strumentalità della presentazione della domanda di protezione internazionale.

La Questura di Roma nella relata di notifica del provvedimento impugnato, specifica quasi sempre il ricorso non sospende automaticamente l’efficacia del provvedimento e richiama la norma che fa riferimento alla manifesta infondatezza. Non potrebbe farlo. Questa norma non può essere affermata dalle Questure ma contenuta nel provvedimento della Commissione. L’art. 28 bis comma 2 lettera a del DLgs 25 del 2008, definisce esattamente cosa si deve intendere per domanda manifestamente infondata: quando il richiedente ha sollevato esclusivamente questioni che non hanno attinenza con i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del DLgs 251 del 2007.

La stessa problematicità presenta la norma alla lettera c dell’articolo 28 bis. Chi ha il potere di valutare se la domanda è stata presentata dopo che il richiedente è stato rintracciato in condizioni di irregolarità al solo scopo di ritardare l’esecuzione del provvedimento di espulsione o respingimento? Sicuramente non le Questure. Neanche la Commissione avrebbe gli strumenti per poter inserire nel corpo dell’atto una simile dicitura.

La tutela cautelare può essere concessa dal giudice per gravi e circostanziate ragioni ma non può mai essere concessa per un provvedimento della commissione territoriale che dichiara la domanda di protezione internazionale inammissibile per la seconda volta. Si dovrebbe porre un problema di costituzionalità della norma, perché dopo la seconda dichiarazione di inammissibilità potrebbero essere sopravvenuti elementi che consentirebbero di concedere la protezione internazionale.

Lo spirito della riforma è quello di evitare il più possibile l’udienza riducendo il procedimento del contraddittorio a cartolare. Lo si vede in questo sub procedimento: il decreto notificato a cura della cancelleria, unitamente alla domanda di sospensione alle parti che hanno nei cinque giorni successivi facoltà di depositare note difensive e nei cinque giorni ancora successivi possono presentare note di replica. Ove tali note sono state depositate il giudice nei cinque giorni successivi conclude questo sub-procedimento senza udienza. Nel caso in cui il giudice dichiari che il provvedimento debba essere automaticamente sospeso per effetto della proposizione del ricorso, questo procedimento non ha corso. Già in questa fase vediamo come diventa fondamentale la professionalità dell’avvocato e questo sarà evidente più avanti in ordine alla possibilità di provocare la fissazione dell’udienza. La materia richiede la sussistenza di specifiche competenze in capo ai giudici e agli avvocati. I poteri ufficiosi del giudice non possono porre rimedio ai compiti specifici del difensore. Quello che viene rilevato nella I sezione, adesso XVIII, è che ci si trova spesso di fronte alla redazione di ricorsi seriali, molti dei quali sono privi di motivazione, che si limitano a riportare sinteticamente quanto dichiarato dal richiedente in sede di audizione. Questo crea dei problemi perché si tratta di ricorsi che tecnicamente non avrebbero i requisiti richiesti dal codice di procedura civile e che, a rigore, andrebbero dichiarati nulli. Cosa che la Sezione non fa perché bisogna preservare il soggetto debole che verrebbe danneggiato dall’incapacità di discernere il difensore adeguato o meno al suo caso. È importantissimo che gli organismi dell’avvocatura moltiplichino le occasioni di formazione e trovino le modalità per effettuare un controllo anche di ordine deontologico, perché quello che potrebbe accadere è che ci siano delle cadute di impegno che pregiudichino i richiedenti. Bisognerebbe istituire nelle sezioni specializzate delle liste di difensori abilitati al gratuito patrocinio specializzati in materia.

Il difensore quando predispone il ricorso non ha a disposizione tutti i documenti che la Commissione ha utilizzato: solo il verbale di audizione e il provvedimento impugnato. La legge prevede che il giudice per decidere si avvalga anche delle COI (Country Originary Information) predisposte dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo. Si pone un problema delicato per l’utilizzo di queste COI. Innanzitutto la Commissione Nazionale è un organo del Ministero dell’interno, Quindi è una delle parti del procedimento. Il giudice può decidere in base a queste COI acquisite autonomamente e non sottoposte al contraddittorio delle parti? Non si dovrebbe.

La legge, allo scopo di accelerare il procedimento, prevede che l’udienza sia solo eventuale salvo alcune eccezioni. Deve essere sempre fissata udienza se non è disponibile la videoregistrazione. A oggi non sono neanche state acquistate le attrezzature per provvedere alla videoregistrazione e quindi va da sé che le udienze verranno fissate, a meno che non ci sia un orientamento delle sezioni rispetto a determinati paesi di provenienza dei richiedenti. Ci sono ulteriori eccezioni nelle quali il giudice ha il potere discrezionale di fissare l’udienza. E qui il ruolo del difensore nella redazione del ricorso acquisisce importanza fondamentale proprio perché deve fare in modo di provocare l’audizione del richiedente. Il giudice fissa l’udienza quando, visionata la videoregistrazione, ritiene indispensabile l’audizione dell’interessato. Ciò si verifica per esempio quando l’audizione in commissione è stata carente, poco approfondita (e questo lo mette in evidenza il difensore nel ricorso); quando si ritiene indispensabile richiedere un chiarimento alle parti; quando deve essere predisposta una consulenza tecnica e quando il richiedente ne abbia fatto motivata richiesta nel ricorso introduttivo e il giudice ritenga essenziale trattare la causa in udienza. A questo punto se la richiesta di celebrazione dell’udienza è motivata, Il rigetto è motivato e censurabile in cassazione.

Un’altra situazione che merita riflessione è quella che si verifica quando l’impugnazione si fonda su elementi di fatto non dedotti nel corso della fase amministrativa. Questa situazione può verificarsi per molteplici casi: per sopravvenute conoscenze di elementi idonei a sopportare la domanda di protezione (come il peggioramento delle condizioni nel Paese di origine) ; in ragione della possibilità che il richiedente davanti alla commissione non abbia voluto dire quello che in realtà avrebbe potuto dire, per reticenza, per timore per diverse ragioni. La prospettazione effettuata nel ricorso avrà efficacia decisiva.

La nuova normativa pone un serio problema interpretativo in ordine al rito applicabile per le richieste di protezione umanitaria perché l’articolo 35 bis del DLgs 25 del 2008 fa riferimento soltanto alle controversie aventi a oggetto l’ impugnazione dei provvedimenti previsti all’articolo 35 che si riferisce allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria. La prassi è che quando si impugna il provvedimento di rigetto della commissione territoriale si chiede la triplice domanda. Si deve affermare l’esigenza di una trattazione unitaria davanti alle sezioni specializzate in composizione collegiale, Anche quando la domanda abbia a oggetto la protezione umanitaria la situazione giuridica sottesa a tale domanda è riconducibile alla categoria dei diritti umani fondamentali (Art. 2 della Costituzione e art. 3 del CEDU. Sarebbe irragionevole che la domanda per la protezione umanitaria venisse valutata dal giudice monocratico e che ci fosse il grado d’appello. l’unica possibilità per cui autonomamente potrebbe decidere il giudice monocratico e si potrebbe poi slegare dal nuovo rito, è il rigetto da parte del Questore del permesso di soggiorno per motivi umanitari. In tutti gli altri casi la protezione umanitaria dovrebbe essere giudicata dal Tribunale nella nuova composizione collegiale col nuovo rito. Questo sarà l’orientamento della sezione.

Il giudizio innanzi al Tribunale conserva la sua caratteristica di giudizio sull’accertamento della sussistenza del diritto e non sull’atto amministrativo ed è quindi sganciato dal principio della domanda e fondato sull’attenuazione dell’onere probatorio incombente sulla parte in quanto soggetto a dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice. Spesso la decisione si fonda esclusivamente sul giudizio di credibilità della dichiarazione del richiedente alla luce della situazione sociopolitica ed economica del Paese di provenienza. l’audizione del ricorrente ha un ruolo centrale ai fini della decisione, tanto che il rigetto della domanda non può fondarsi sul giudizio di non credibilità se il giudice non ha sentito personalmente il ricorrente, Pena l’incostituzionalità della norma per violazione del diritto di difesa e del giusto processo posto che nel procedimento in sede di audizione avanti la Commissione non è posto nemmeno l’obbligo di difesa tecnica del richiedente la presenza del difensore alla sua audizione.

Questo è a grandi linee il nuovo diritto di impugnazione davanti le sezioni specializzate. Speriamo di aver modo di approfondirlo anche alla luce degli orientamenti che verranno assunti dalle varie sezioni.

 

Antonio Carratta

Professore ordinario di Diritto Processuale Civile, Roma Tre

Il nuovo procedimento camerale in materia di protezione internazionale: dubbi di legittimità costituzionale

Il mio intervento si concentrerà su alcuni aspetti che mi sembrano inaccettabili dal punto di vista costituzionale, in particolare sul nuovo rito relativo al 35 bis. La prima questione è l’istituzione delle nuove sezioni specializzate mediante decreto legge. La Corte Costituzionale in passato ha rilevato che l’intervento sulla disciplina dell’ordinamento giudiziario mediante decreto legge non è in linea con i principi costituzionali perché lede il principio del giudice naturale precostituito per legge. Il rito introdotto col 35 bis rappresenta un unicum nell’ordinamento. Se si rispolvera il procedimento camerale, occorre dire che si tratta di un rito camerale sui generis. E le particolarità sono molteplici. Senza dubbio la scelta che fa il legislatore sul piano processuale è indice di alcune volontà sottese. Con riferimento alla disciplina processuale della materia in oggetto, cioè la protezione internazionale, è significativo l’orientamento che il legislatore ha seguito nel tempo. Siamo partiti da un rito camerale “puro” (art. 737 e seguenti del codice di procedura civile). Nel 2008 con DLgs 25 si continua a utilizzare il rito camerale, poi interviene il legislatore nel 2011 e adotta il procedimento sommario che prevede in una prima fase il procedimento sommario ma con la possibilità d’appello che riapre la cognizione piena, salvo il ricorso per cassazione successivo.. E poi l’intervento odierno che non ritorna al camerale codicistico, ma si inventa un rito nuovo. Il dato che emerge è la soppressione del reclamo avverso il decreto del giudice di primo grado alla Corte d’appello. In tutte le ipotesi in cui il legislatore ha usato il procedimento camerale in materia contenziosa c’è sempre il reclamo, salvo poi il ricorso successivo in cassazione.

Da processualista vorrei sottolineare quali conseguenze ha la soppressione dell’appello/ reclamo perché si dice sempre che l’appello nel processo civile non ha copertura costituzionale. Questo però non consente al legislatore di sopprimerlo a volte sì a volte no perché c’è il principio di ragionevolezza, c’è l’articolo 3 che va salvaguardato. Perché nel 90% dei casi in cui utilizza il procedimento camerale in materia contenziosa ammette il reclamo e in questa sola ipotesi non lo ammette? Evidentemente questo è contrario al principio di ragionevolezza perché la Corte Costituzionale ha riconosciuto che di per sé l’adozione del procedimento camerale non lede alcun diritto, salvo che la scelta del legislatore risponda a principi di ragionevolezza. Il legislatore quindi deve motivare la sua scelta e non può giustificarla con la necessità di accelerare i procedimenti. Bisogna piuttosto che ci siano ragioni sostanziali legate alla natura del diritto che possano sostenere questa scelta. Rappresenta questo quindi il primo vulnus ai principi costituzionali.

In secondo luogo, l’aspetto che più stride è il fatto che il legislatore non consente l’udienza. Si dice che il contraddittorio è assicurato in forma cartolare. L’oggetto è l’accertamento dei presupposti per avere la protezione quindi un diritto soggettivo. La scelta del legislatore di non ammettere l’udienza stride col principio di pubblicità dei giudizi che è garantito dall’art. 6 par. 1 della Convenzione sui diritti dell’uomo, ma la Corte ci ha ricordato che il suddetto articolo non trova applicazione in materia di immigrazione. Ci si dimentica però di un piccolo elemento: l’art. 6 è stato riversato nell’art. 47 della Carta di Nizza quindi fa parte integrante dell’ordinamento sovranazionale. Quindi almeno a livello di Diritto europeo noi siamo tenuti al rispetto, non direttamente dell’art. 6 ma dell’art. 47 in cui si afferma il diritto di chiunque rivendichi davanti al giudice la tutela di un diritto soggettivo, di avere una decisione assunta in udienza pubblica.

L’articolo 35 bis non esclude in toto la possibilità di avere udienza, ma in tutte le ipotesi di eccezione il giudice ha comunque la discrezionalità di disporre l’udienza. Ma se stiamo parlando di un diritto non può essere discrezionale. Non è accettabile che sia il giudice a decidere quando e se ammettere l’esercizio di un diritto. Vero è che, nel passaggio dal decreto alla legge, è stata aggiunta un’ulteriore ipotesi in cui il richiedente ha diritto all’udienza. Quella cioè in cui si aggiungano nuovi elementi di fatto nel ricorso. Tuttavia l’impostazione è la seguente: il giudice, salvo che non ci siano nuovi elementi sopraggiunti, deve limitarsi a valutare quanto ha già valutato la Commissione. Ma qui non ci troviamo di fronte a un giudice di secondo grado: in questo caso egli deve esaminare ex novo gli elementi fattuali che già aveva esaminato la Commissione.

La soluzione, anche in via interpretativa, è che il giudice debba disporre di un’udienza pubblica, non solo quando si tratti di valutare nuovi elementi di fatto, ma tutte le volte in cui deve formarsi un convincimento. Il legislatore quando disciplina le ipotesi in cui il giudice può disporre l’udienza, usa l’avverbio esclusivamente che, per un processualista, ha un peso enorme. Un giudice non può essere limitato nell’acquisizione degli elementi per la formazione del suo convincimento. I limiti imposti dal legislatore vanno contro l’art. 47 della Carta di Nizza, l’art. 6 della Convenzione, ma anche contro il principio affermato nella nostra Costituzione in materia di contenzioso.

Il terzo vulnus ai principi costituzionali è rintracciabile nella questione della sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione. Si prevede che la proposizione dell’impugnazione normalmente non sia sospensiva. Questo implica che il richiedente possa essere espulso. Il provvedimento di sospensione ha natura cautelare. L’articolo 35 bis prevede che in alcune ipotesi il giudice la possa concedere, ma la esclude nel caso in cui la domanda sia stata dichiarata inammissibile per due volte dalla Commissione. Tuttavia l’impugnazione azzera la valutazione della Commissione, quindi rimette a pieno titolo il giudice nel potere di valutare quegli elementi. Il fatto che la Commissione abbia per due volte dichiarato inammissibile la domanda non significa che la domanda sia ammissibile o fondata: nulla impedisce al giudice davanti al quale stata proposta l’opposizione, di predisporre l’esecuzione del provvedimento in via cautelare a salvaguardia di gravi circostanziate ragioni.

Il quarto vulnus riguarda il fatto che il procedimento di sospensione sia adottato con un sub- procedimento molto accelerato. Nel caso in cui il provvedimento sia di rigetto, perché non dovrebbe essere ammissibile il reclamo a un provvedimento cautelare ex art. 669 terdecies ammesso per tutti i provvedimenti cautelari? Qui ancora una volta è la Corte Costituzionale nel 1994, intervenendo sul 669 terdecies, che in origine prevedeva il reclamo cautelare solo per alcune ipotesi, a dire che il reclamo fa parte della garanzia di effettività della tutela giurisdizionale. Non prevedere il reclamo va contro l’articolo 24 della costituzione. Questo discorso vale anche quando, a seguito della decisione del Tribunale, si faccia ricorso per Cassazione perché in quella sede si ammette la possibilità di ottenere la sospensione della decisione del Tribunale e anche in quel caso sembrerebbe che il procedimento sia di decreto non reclamabile. Quindi si pone ancora il problema di non costituzionalità del mancato reclamo ex art. 669 terdecies.

Per quanto riguarda il quinto vulnus facciamo riferimento al fatto che il ricorso per Cassazione sia l’unico rimedio all’opposizione del Tribunale. Innanzitutto abbiamo un termine di ricorso per Cassazione che non è quello ordinario (normalmente 60 giorni) ma di 30 giorni. Il diritto di difesa si lede anche attraverso alcuni escamotage che il legislatore utilizza. La procura rilasciata all’avvocato cassazionista deve essere rilasciata successivamente la pronuncia del tribunale e per certificare la data occorre per forza l’avvocato. Ma perché? Non potrebbe farlo per esempio il Consolato? L’irragionevolezza del legislatore sta sia nell’imporre dei termini così stringenti, sia nell’aggravare i requisiti formali alla parte. Ma la sua scelta è anche contraddittoria e irragionevole all’interno dello stesso art. 35 bis. Infatti questo prevede qualche comma prima, che per proporre opposizione davanti al Tribunale il richiedente possa rilasciare la procura al difensore attraverso le autorità consolari. Mentre per il ricorso in Cassazione l’autentica deve essere necessariamente dell’avvocato. In situazioni identiche il legislatore fa delle scelte diverse assolutamente inaccettabili.

 

Luca Santini

Avvocato di Progetto Diritti

Nuove accortezze del difensore nei confronti del richiedente asilo

Cosa cambia nella quotidianità dell’avvocato di fronte alle novità che questo provvedimento pone? Diciamo che sicuramente l’aspetto più macroscopico è l’assenza dell’appello. E quindi, lasciando in sospeso la riflessione sulla anticostituzionalità o anticomunitarietà di questo elemento, la conseguenza più diretta è che bisognerà attrezzarsi meglio con i ricorsi per Cassazione. Questi non cambiano le loro regole per effetto del decreto Minniti, quindi quelle difficoltà di accesso alla suprema Corte continuano a sussistere. La Corte continua a trincerarsi sempre di più dietro norme processuali restrittive e se le fa a volte riscrivere dal legislatore. Non esiste più il ricorso per difetto o irragionevolezza della motivazione perché ormai è ridotto soltanto a caso di scuola, di motivazione omessa che deve peraltro risultare dal provvedimento stesso che si impugna. Il giudice che, pur avendo dato atto nella sua motivazione che il ricorrente ha chiesto, fra le altre cose, la protezione umanitaria, poi si dimentica di provvedere sul punto, ne è la concede né la nega. Questo può essere un punto di ricorso in Cassazione. Ci può essere ricorso in Cassazione per violazione di legge ma le coordinate di quelle che sono le normative applicabili sono note ai Tribunali e non ci sono dubbi applicativi.

Spesso le controversie di primo grado si giocano sulla credibilità del ricorrente. Questo sarebbe un tipico giudizio sul fatto sottratto al ricorso di legittimità. Tuttavia ricordo che c’è una sentenza delle Nazioni Unite nel 2008 (n. 27310) che ha espresso dei principi che sono stati ripresi recentemente da una intervento del 2017 (pubblicato sul sito di Progetto Diritti). In quest’ultimo caso la Corte rinvigorisce una serie di principi e mette sull’avviso il giudice della Corte di appello di Ancona che aveva ritenuto non credibile la storia di un cittadino nigeriano dichiaratosi omosessuale. La sentenza della Corte ricorda che è la credibilità o meno non è una presa di posizione soggettivistica del giudice, piuttosto il giudizio sulla credibilità è fortemente proceduralizzato. Ci sono delle norme che impongono al giudice di porsi una serie di domande: il ricorrente ha circostanziato la sua domanda? Ha spiegato come mai non ha riscontri? Si è contraddetto rispetto alle notizie che si conoscono? Ha presentato la domanda tempestivamente? Ci sono dunque una serie di check sulla domanda, superati i quali l’esito è se il ricorrente è credibile o no. Ci sarà da governare l’error in procedendo nel modo in cui il giudice di I grado valuta il vissuto espresso nell’audizione.

Esiste un altro tema che l’assenza dell’appello e tutte le restrizioni introdotte impongono con maggiore urgenza: quello dell’interpretariato. Ci sono delle occasioni cui il giudice stabilisce che nell’audizione del ricorrente nell’udienza ci siano interpreti di sua fiducia. Questa figura dell’interprete di fiducia è qualcosa che sfugge. Non è un consulente del giudice idoneo a svolgere una funzione di ausilio al giudicante, ma un interprete il cui reclutamento avviene secondo procedure assolutamente informali. Quando c’è un’ordinanza di rigetto questo potrebbe essere motivo di Cassazione, soprattutto se si riesce a dimostrare che questo elemento ha avuto un’efficacia diretta nel pregiudicare l’audizione del ricorrente.

Solleviamo un problema di principio dispositivo violato. Siamo abituati a valutare questo obbligo che il tribunale ha di venire in soccorso del ricorrente in senso positivo. Il problema si pone quando il giudice fa riferimento a delle informazioni sui Paesi di origine sulle quali la difesa non riesce a interloquire. Questo problema esisteva prima del decreto Minniti, perché l’art. 5 del Dlgs 25 del 2008, dove si stabiliscono i compiti della Commissione nazionale, dice che fra i suoi compiti c’è quello di costituire e aggiornare un centro di documentazione sui Paesi di provenienza. All’art. 8 comma 3 dello stesso Decreto si aggiunge che la Commissione territoriale, che ha le stesse fonti della Commissione nazionale, le mette a disposizione del giudice. Ma il giudice può ricorrere anche ad altre fonti. Il problema delle fonti su cui si basa la decisione è molto grave, soprattutto quando l’appello, perché se non ho in quell’occasione l’interlocuzione, mi rimane solo il ricorso in Cassazione. Cito il caso di un cittadino del Togo che assumeva di essere militante del partito di opposizione e nel denunciare la natura autoritaria e violenta del regime sosteneva di aver subito egli stesso delle forme di repressione (soffriva di epilessia in conseguenza di una manganellata). La difesa aveva trovato una serie di fonti: Amnesty International, il sito di Nigrizia, un dossier informativo che questa forza di opposizione aveva predisposto, e, nella memoria di replica che questo giudice aveva concesso, un articolo aggiornato di Amnesty International. L’ordinanza del giudice affermava invece che la situazione del Togo non fosse problematica e che gli osservatori internazionali in occasione delle elezioni del 2015 non avevano rilevato nessuna irregolarità. Cita come fonte a sostegno di queste tesi delle fonti del Dipartimento di Stato americano. Saranno delle fonti attendibili, ma su queste fonti non c’è stato il contraddittorio. In questo specifico caso l’appello potrà ovviare alla carenza del principio del contraddittorio. Un domani questa potrebbe essere una questione su cui investire la Cassazione.

Un altro problema è quello dell’accessibilità alla procedura. Non so se di questo problema gli avvocati si siano resi conto fino in fondo. Parliamo delle notifiche a domicilio del richiedente asilo. Quando questo è irreperibile sappiamo che l’atto resterà in Questura per 20 giorni, dopo di che l’atto di dà per notificato. Da quel momento cominciano a decorrere i 30 giorni per fare ricorso. Questo significa che nel momento in cui il ricorrente, successivamente ai 20 giorni, passerà in Questura a ritirare il provvedimento, i termini del ricorso potrebbero essere già decorsi. Questo è un avvertimento per l’avvocato e una novità che riorganizzerà tutta l’attività degli studi legali. Magari in agosto senza la sospensione feriale si avrà una settimana per impugnare il provvedimento.

Concludo per dire che forse nessuna delle disposizioni che stiamo qui commentando presa da sola è incostituzionale o viola in modo drammatico il principio del giusto processo che trova espressione sia nella CEDU che in delle norme di diritto comunitario (in particolare l’art. 46 della direttiva 32 del 2013). È grave però il combinato disposto di tutto questo. Soprattutto se i giudici cambieranno l’atteggiamento in qualche modo condiscendente. Se tutta la procedura entrerà in vigore, ci potremmo trovare con una difficoltà di accesso e quindi non ci sarà un termine ragionevole per proporre ricorso. Senza un’udienza e quindi senza la possibilità di far esaminare il caso del giudice che non solo non farà l’audizione, ma non è nemmeno tenuto a fare l’udienza di comparizione delle parti (questa serve soprattutto all’avvocato quando non ha potuto esprimere tutto nel suo scritto). Quando la qualità dell’interpretariato è scadente. Quando non c’è la conoscibilità delle fonti, quando l’udienza non è pubblica, quando non c’è l’appello. Quando tutta questa norma verrà applicata nella sua integralità e senza sconti, allora forse una volta esaurito il procedimento, si potrà ricorrere alla CEDU per porre nella globalità la questione del Fair trade nei confronti di questa particolare categoria di soggetti.

Infine il decreto Minniti per la prima volta regolarizza il sistema hotspot cioè questa detenzione in un limbo giuridico di persone che non sono richiedenti asilo. Abbiamo avuto la prima sperimentazione nel momento dell’emergenza Nord Africa. All’epoca un numero consistente di cittadini tunisini furono smistati da Lampedusa in una serie di centri. Uno di questi era una caserma in disuso a Civitavecchia. In quel periodo organizzai, insieme un’associazione di tutela di base, una provocazione. Io avevo una mail di un familiare di un trattenuto tunisino in cui mi si chiedeva un intervento. Chiesi al dirigente di quel centro di poter colloquiare con la persona e l’associazione di poter introdurre dei biscotti. Queste richieste gettarono nel panico più assoluto la struttura. Alla fine l’avvocato non poté passare e i biscotti sì.

Queste aree continuano a essere non giuridificate perché l’art. 10 ter dice solo che queste procedure si possono fare ma non dice per quante ore, se c’è una convalida, se ci sarà un provvedimento che spieghi a queste persone perché sono trattenute. Non si capisce nemmeno se saranno trattenute o se avranno la possibilità di uscire. L’istituzione di queste aree richiederà il monitoraggio da parte nostra, degli avvocati, delle associazioni. Il rimedio sarà il risarcimento danni perché si tratta di situazioni che gli organismi internazionali definiscono di detenzione in incommunicado, senza possibilità di colloquiare con l’esterno e senza nessun controllo valido a livello giurisdizionale. Su questa situazione la Cassazione si è già espressa e quindi credo che una tutela risarcitoria potrà essere ragionata.

 

Giovanni Serges,

Professore ordinario di Diritto Costituzionale, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Roma Tre

Abolizione del doppio grado di giurisdizione in materia di riconoscimento della protezione internazionale: profili di costituzionalità

Vorrei intrattenermi sul tema dell’assenza dell’appello. In che misura questo provvedimento potrà arrivare all’esame della Corte Costituzionale e quali sono le probabilità che sia accolta una questione di costituzionalità relativa all’eliminazione di un grado di giudizio? La giurisprudenza costituzionale fino a oggi è stata particolarmente restrittiva: non ha mai riconosciuto espressamente il fatto che nel nostro ordinamento esista la garanzia di un doppio grado di giurisdizione. È una giurisprudenza molto risalente che ha avuto dei momenti di particolare approfondimento, soprattutto in una decisione del 1981, ma che ha sempre mantenuto ferma questa asserzione. Non fu accolto dalla Costituzione un emendamento che pure era stato presentato durante i lavori dell’Assemblea costituente, che prevedeva espressamente l’impugnabilità di tutte le decisioni giurisdizionali. E questo probabilmente fu dovuto al fatto che c’era in ballo la questione delle decisioni in unico grado delle Corti d’Assise. Sulla base di questo la Corte non ha mai riconosciuto che il doppio grado di giudizio possa avere un riconoscimento nella Costituzione. Tuttavia questo è avvenuto non senza qualche vistosa contraddizione. In primo luogo perché questa garanzia è stata riconosciuta in un primo momento con larghezza di respiro nell’ambito del processo amministrativo sulla base di una disposizione costituzionale che voleva significare tutt’altro. L’art. 125 era inserito in una parte diversa della Costituzione che parla di organi di giustizia amministrativa di primo grado. Sulla base di questo si è riconosciuto, almeno fino a un certo punto, che il processo amministrativo dovesse plasmarsi sul doppio grado. Ma il processo amministrativo nasce con il giudice che poi diventa giudice d’appello in Consiglio di Stato e poi diventa quello che è dopo un’attuazione dell’articolo 125.

Ci sono tante decisioni dalle quali si può ricavare che a certe condizioni l’esclusione dell’appello diventa incostituzionale. Il più classico è il caso di quelle decisioni per le quali accoppiando le violazione dell’art. 3 e dell’art. 24 si è arrivati a dichiarare incostituzionale la misura che escludeva l’appello.

Due decisioni in particolare possono essere di una qualche utilità. La prima è la num. 67 del 2005. La Corte Costituzionale si riferisce all’ipotesi di esclusione dell’appello proprio in tema di reclamabilità di un decreto. Fa riferimento non a una sentenza ma a un decreto reclamabile afferma che l’impossibilità di escludere il reclamo in questo caso è da riconnettere a ineludibili principi costituzionali: l’art. 3, il 24 ma anche il 111, quindi quello sul giusto processo. Se sono ineludibili i principi costituzionali che giocano a favore del riconoscimento pieno del doppio grado di giudizio, anche nell’ipotesi del decreto reclamabile, dovremmo stare tranquilli.

Dove si può sollevare la questione di incostituzionalità? Nel caso di questa sentenza la questione era stata sollevata alla Corte d’Appello sapendo che l’appello era precluso. Forse si potrebbe fare la stessa cosa nel nostro caso.

Certamente la questione è rilevante perché la Corte dovrebbe decidere su una norma che le preclude di pronunziarsi. L’appello sarebbe inammissibile e la questione pregiudiziale potrebbe essere rilevata.

L’altra decisione da tenere presente è la 274 del 2009. La Corte ricorda che, pur in assenza di riconoscimento costituzionale della garanzia del doppio grado di merito, il potere d’appello dell’imputato si presenta correlato al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa che gli conferisce una più accentuata forza di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso, legate alla realizzazione di obiettivi di speditezza processuale. Questa decisione sembra calata nella situazione attuale.

Il profilo di incostituzionalità di questa norma può essere sollevato con una ragionevole prospettiva di accoglimento. Auspico che la Corte Costituzionale allarghi la prospettiva alle Convenzioni internazionali le quali sono un po’ ambigue. Il Patto internazionale sui diritti civili e politici parla di un riesame ma il diritto d’esame è probabilmente soddisfatto nel nostro ordinamento dal giudizio in Cassazione. Quando il patto fu ratificato, l’Italia fece un’espressa riserva per salvaguardare il processo penale in unico grado davanti alla Corte Costituzionale per i reati ministeriali. Per evitare che nel nostro ordinamento si introducesse un Trattato internazionale in contrasto con la norma che precludeva l’appello, operò una riserva. Questo fatto potrebbe essere valorizzato.

La valorizzazione potrebbe avvenire in base a un raffronto diretto con il principio del giusto processo. Si è operato sempre sul binomio ragionevolezza-diseguaglianza/diritto alla difesa, ma non nella combinazione con l’art. 111. Un processo equilibrato è quello che il legislatore ha adottato come modello ordinario in tutti i processi giurisdizionali dell’ordinamento civile, penale, amministrativo (addirittura esasperandole in quest’ultimo). Sulla base di questa considerazione una questione di costituzionalità limitata a questo profilo (e poi ancora più forte se la riferiamo al quadro complessivo della norma assolutamente disarmante), potrebbe certo trovare un fondamento.

 

Mario Angelelli, Presidente Progetto Diritti

La parola più usata dei nostri relatori per descrivere il decreto è irragionevolezza che sarà uno dei leit motiv per i nostri ricorsi. Aggiungo un altro elemento di irragionevolezza nell’articolo 19 che prevede l’aumento dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Questi sono i vecchi CIE che hanno avuto un fallimento totale nei 15 anni passati. Sono stati costosissimi, non hanno funzionato, hanno inflitto innumerevoli sofferenze ai cosiddetti ospiti.

 

Cosimo Alvaro

Avvocato di Progetto Diritti

Le difficoltà di accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e le novità in tema di ricorsi sulla Convenzione di Dublino

Il mio intervento potrebbe sembrarvi fuori luogo perché io vi farò tornare indietro, cioè vi parlerò del problema di accesso alla procedura. C’è il problema del richiedente che deve recarsi in Questura per formalizzare la domanda. La procedura amministrativa dev’essere avviata e anche rispetto a questo problema possiamo parlare di garanzie giurisdizionali. Come si comporta il richiedente che vede disattesa la sua pretesa di azionare la procedura? Per esporvi questo problema parlerò di alcune prassi adottate dalla Questura di Roma. Questo sia perché qui ci troviamo, sia perché la questura di Roma adotta certe prassi anche in ragione del massiccio afflusso di richiedenti protezione internazionale che ragionevolmente potrebbero essere replicate da altre Questure. Per quanto riguarda il problema dell’accesso ha effettuato un sopralluogo di notte all’esterno dell’Ufficio immigrazione di Roma. Gli aspiranti richiedenti dormivano all’aperto nella speranza di poter conquistare un turno per formalizzare la domanda. In occasione del mio sopralluogo c’erano 40 persone, di queste solo tre hanno avuto la possibilità di presentare domanda perché la Questura accoglie un numero limitato di domande e poi bisogna dare la precedenza ai casi provenienti dagli sbarchi. Il problema si accentua a causa del fatto che anche associazioni come la nostra, che hanno un rapporto ventennale con la Questura, non riescono materialmente a ottenere un appuntamento per consentire ai richiedenti di formalizzare la domanda, persino in situazioni particolarmente vulnerabili. Per il momento non siamo riusciti a farlo a fare un’azione pilota. Ipotizzo che, a fronte di tale situazione, l’unico strumento utilizzabile sia quello previsto dall’art. 700. La pretesa di accedere alla protezione ha carattere universale e d’altra parte sussiste il periculum in mora consistente in un allontanamento forzato dello straniero che soggiorna senza titolo.

Il secondo problema si manifesta allorquando la persona materialmente deve formulare la richiesta attraverso la sottoscrizione del verbale C3 (un modello redatto dal ministero in cui vengono registrate le generalità della persona ed eventualmente motivi posti a fondamento dell’espatrio). Capita che molte Questure per far proseguire le procedure pretendano dal richiedente l’esibizione di una cessione di fabbricato per dare conto di una dimora stabile che garantisca la reperibilità. Queste sono prassi illogiche oltre che contrarie alle leggi perché il DLgs 142 del 2015 prevede che l’obbligo di eleggere domicilio ai fini della procedura si assolva tramite semplice dichiarazione. Si tratta di una norma che tiene conto della particolarità del soggetto che ha azionato la procedura. Spesso il richiedente infatti non ha dimora stabile. Questa richiesta è, fra l’altro, propulsiva del mercato nero delle locazioni perché le persone si trovano costrette ad acquistare una cessione di fabbricato per dare seguito alla procedura. L’amministrazione notifica alla persona una comunicazione ai sensi dell’art. 10 bis legge 241 del ‘90: se il richiedente non fornisce la documentazione richiesta, cioè la cessione di fabbricato, la procedura non va avanti.

Un ulteriore problema che si configura immediatamente dopo la formalizzazione della domanda è la procedura Dublino. Il Regolamento di Dublino nasceva per contrastare il fenomeno dell’asylum shopping, cioè la tendenza, da parte dei richiedenti, di presentare la domanda di protezione in diversi Stati per avere più possibilità di ottenere decisioni favorevoli.

La procedura introdotta dal regolamento di Dublino si caratterizza per un’interlocuzione tra i vari Stati rispetto ai quali è transitato il richiedente protezione internazionale e prevede termini assolutamente perentori. Lo Stato che riceve una domanda di protezione, allorquando verifica che il soggetto abbia transitato o presentato domanda in un altro Stato, deve avviare immediatamente un’interlocuzione. Se la richiesta non viene effettuata nei termini perentori si innesca un meccanismo sanzionatorio per il quale quello Stato diventa competente. Stessa cosa se lo Stato che riceve la richiesta non risponde nei tempi previsti. Il problema non è risolto neanche superati questi termini perentori, perché è richiesto che vi sia un provvedimento espresso a statuire sulla competenza e questo provvedimento espresso, considerando il sottodimensionamento che caratterizza il regolamento Dublino, non arriva. Ci si trova di fronte a persone che attendono la determinazione della loro competenza per un periodo di tempo abnorme. La tutela azionabile in questo caso potrebbe essere quella del silenzio, cioè di amministrazione che omette di provvedere nei termini previsti.

Rispetto al Regolamento di Dublino è stata emanata una decisione da parte della Commissione libertà civili del Parlamento Europeo. Questa dovrebbe modificare il criterio orientatore del Regolamento vigente introducendo un meccanismo nuovo: quello della ripartizione delle quote. Un meccanismo già conosciuto con la previsione della relocation, con la quale si era previsto che i cittadini che avevano transitato per l’Italia o per la Grecia e provenienti da Paesi come la Siria o la Repubblica centrafricana, ove è conclamato che sussistano delle condizioni di emergenza, siano ripartiti per quote nei Paesi membri. Quello della relocation è un meccanismo che ha avuto esiti deficitari se non irrilevanti per cui non è detto che questa prospettiva di riforma vada a incidere sui problemi esistenti. Anche in considerazione del fatto che i Paesi dell’Est Europa sono contrari a questa prospettiva.

 

 

 

, , , , , , , ,