Corte di giustizia europea – Libertà di religione e diritto di asilo

04.05.2012

Una grave violazione della libertà di religione può costituire un «atto di persecuzione» quando il richiedente asilo corre un rischio effettivo di essere privato dei suoi diritti più essenziali

Nelle Conclusioni dell’Avvocato generale nelle cause riunite C-71/11, C-99/11 si afferma che ciò si verifica quando egli è esposto al rischio di essere ucciso, torturato, sottoposto a trattamenti o a pene inumani o degradanti, di essere ridotto in schiavitù o servitù o di essere perseguito o detenuto arbitrariamente.

La direttiva 2004/83/CE1 mira a stabilire norme minime e criteri comuni a tutti gli Stati membri per il riconoscimento ai richiedenti asilo della qualità di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra. Il riconoscimento dello status di rifugiato implica che il cittadino del paese terzo interessato nutra un timore fondato di essere perseguitato nel suo paese d’origine per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale. In base a tale direttiva, la nozione di atto di persecuzione comprende gli atti gravi che, per loro natura o frequenza, rappresentano una pesante violazione dei diritti umani fondamentali e in particolare dei suoi diritti inderogabili.

Il Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale tedesca) ha invitato la Corte di giustizia a precisare le circostanze in cui una violazione della libertà di religione, e soprattutto del diritto di un individuo di professare apertamente e pienamente la propria fede, possa costituire un «atto di persecuzione» ai sensi della direttiva. Questa domanda di pronuncia pregiudiziale rientra nel contesto di una controversia tra le autorità tedesche e due richiedenti asilo di nazionalità pakistana. Questi ultimi sono membri attivi della comunità Ahmadiyya, che è un movimento riformista dell’Islam osteggiato da tempo dai musulmani sunniti, maggioritari in Pakistan, le cui attività religiose sono severamente limitate dal codice penale pakistano. Pertanto, essi non possono professare la loro fede pubblicamente senza rischiare che tali pratiche siano giudicate blasfeme, capo d’imputazione punibile, secondo il detto codice, con una pena detentiva o addirittura con la pena di morte.

Nelle conclusioni del 19 aprile 2012, l’avvocato generale Yves Bot ricorda che l’obiettivo del regime europeo comune in materia d’asilo non è quello di concedere una protezione internazionale tutte le volte che un individuo non può pienamente ed effettivamente esercitare, nel suo paese d’origine, tutte le garanzie che gli sono riconosciute dalle convenzioni di tutela dei diritti di umani, bensì di limitare il riconoscimento dello status di rifugiato all’individuo che rischi di essere esposto, nel suo paese d’origine, ad una persecuzione, ossia alla grave e intollerabile lesione della sua persona, e in particolare dei suoi diritti inderogabili, e la cui vita in tale paese è divenuta intollerabile.

Il sig. Bot ricorda innanzitutto il carattere fondamentale della libertà di religione e respinge l’idea secondo cui solo una violazione grave del suo «nucleo essenziale» – il foro interno e la manifestazione privata – sarebbe idonea ad integrare un atto di persecuzione. Secondo l’avvocato  generale, quest’ultimo si caratterizza non tanto per l’aspetto della libertà di religione colpito – il foro interno, la manifestazione privata o pubblica, individuale o collettiva – bensì per la natura della repressione esercitata e le sue conseguenze sull’individuo.

L’avvocato generale richiama poi le limitazioni che la libertà di religione può subire in uno Stato di diritto affinché si possa mantenere il pluralismo religioso e in nome della pacifica coesistenza delle diverse credenze. Tale obiettivo giustifica che taluni divieti siano sanzionati penalmente, purché le sanzioni previste siano proporzionate e siano decise nel rispetto delle libertà individuali

Di conseguenza, l’avvocato generale ritiene che sia il livello delle misure e delle sanzioni adottate contro l’interessato che rivela la presenza di una situazione sproporzionata, la quale rappresenta il marchio oggettivo della persecuzione, ossia la violazione di un diritto inderogabile dell’individuo.

Pertanto, secondo l’avvocato generale, una violazione grave della libertà di religione può costituire un «atto di persecuzione» nell’accezione della direttiva quando il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà o della violazione delle restrizioni cui essa è soggetta nel suo paese d’origine, corre un rischio effettivo di essere giustiziato o sottoposto a tortura, a trattamenti o a pene inumani o degradanti, di essere ridotto in schiavitù o servitù o di essere perseguito o detenuto arbitrariamente. In tale contesto, spetta alle autorità responsabili dell’esame di una domanda d’asilo verificare, in concreto, quali sia la norma invocata nel paese d’origine e la pratica repressiva, in senso lato.

Quanto alla situazione dei membri della comunità Ahmadiyya in Pakistan, l’avvocato generale considera che i divieti previsti dalla normativa pakistana possano costituire una violazione grave della libertà di religione e che le sanzioni di cui tali divieti sono corredati, se effettivamente applicate, possono raggiungere il livello di una persecuzione, in quanto sono finalizzate a privare dei suoi diritti più fondamentali chiunque persista nella manifestazione pubblica della sua fede, minacciandolo con una pena detentiva o capitale.

L’avvocato generale reputa inoltre che l’autorità responsabile dell’esame di una domanda di asilo non possa ragionevolmente esigere dal richiedente asilo che egli rinunci alle sue attività religiose per evitare di essere perseguitato. Ciò equivarrebbe infatti a negargli un diritto fondamentale che gli è garantito dalle convenzioni per la tutela dei diritti umani. Inoltre, ciò significherebbe svuotare la direttiva del suο effetto utilie, in quanto essa non consentirebbe di tutelare l’individuo che, avendo scelto di esercitare i suoi diritti e le sue libertà nel proprio paese d’origine, si espone ad un atto di persecuzione. Infine, a prescindere dagli sforzi che l’individuo potrebbe effettuare nel suo modo di vivere la sua fede in pubblico, tutte le attività, comprese quelle più insignificanti, potrebbero, in certi paesi, rappresentare un pretesto per qualsiasi forma di abuso nei suoi confronti.

Fonte: Comunicato stampa della Corte di giustizia dell’Ue