Una cittadina senegalese, originaria di Dakar, aveva lasciato il Senegal per fuggire dall’uomo con cui era stata costretta a sposarsi e dal quale aveva subito ripetute violenze sessuali e psicologiche.
La donna, orfana di genitori, aveva tentato di sottrarsi al matrimonio forzato con un uomo molto più grande di lei e che aveva già due mogli, rivolgendosi alla polizia. Ma era stata invitata a rispettare le tradizioni. In seguito al rito, svoltosi in sua assenza e alla sola presenza del marito e dei testimoni, era iniziata una convivenza fatta di soprusi e violenza domestica e durante la quale era stata anche costretta a lasciare il lavoro come contabile. In seguito a un’emorragia causata da un aborto, confidato il suo dramma a un’infermiera, era stata aiutata a fuggire con un passaporto falso. La sua domanda di protezione internazionale, presentata all’arrivo in Italia, era stata però rifiutata dalla Commissione territoriale che non aveva ritenuto il suo racconto coerente e verosimile.
La giudice del Tribunale civile di Roma, Cristiana Ciavattone, accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato di Progetto Diritti Mario Angelelli, ha riconosciuto invece alla donna lo status di rifugiata. Con sentenza dell’11 maggio 2018, la giudice rileva che ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’art. 7 del d.lgs. 251/2007 (cosiddetto qualifiche), gli atti di persecuzione possono assumere la forma, tra l’altro, di «atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale» (secondo comma, lett. a), o di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia» (secondo comma, lett. f).
Inoltre la giudice cita gli artt. 3 e 60 della Convenzione di Istanbul dell’11/05/2011 (resa esecutiva in Italia con L. 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, che attestano che anche gli atti di violenza domestica sono riconducibili all’ambito dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale (cfr. Cass. n. 12333/2017; n. 28152/2017).
Secondo le linee dell’UNHCR del 07/05/2002 sulla persecuzione basata sul genere, si ha persecuzione anche quando una donna viene limitata nel godimento dei propri diritti a causa del rifiuto di attenersi a disposizioni tradizionali religiose legate al suo genere.
In sede di audizione la ricorrente, oltre ad aver documentato la sua integrazione in Italia sia sotto il profilo linguistico che lavorativo, ha sottolineato l’impossibilità di rivolgersi alla polizia del suo Paese che precedentemente non le aveva offerto alcuna protezione, esponendola alla persecuzione di “soggetti non statuali”.
Occorre infine tenere presente il dato sul contesto d’origine che registra come la pratica dei matrimoni forzati sia ancora diffusa in Senegal. Pratica a seguito della quale molte giovani donne, anche minori, sono costrette ad abbandonare gli studi e le attività svolte.
“Deve pertanto ritenersi– conclude la giudice – che l’odierna ricorrente sia stata vittima di una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza a un gruppo sociale (in quanto donna), nella forma di «atti specificatamente diretti contro un genere sessuale» (art. 7, comma secondo, lett. f, d.lgs. 251/2007) e deve pertanto esserle accordato lo status di rifugiato“.
Qui la sentenza del Tribunale di Roma del 11/05/2018.