“Non ce la faccio più a contare i morti. Andiamo noi sulle coste turche a prendere i profughi con un ponte navale. E abbattiamo la barriera costruita al confine tra la Grecia e la Turchia”. E’ l’appello lanciato mesi fa all’Unione Europea da Spyros Galinos, il sindaco di Lesbo, la piccola isola dell’Egeo dove nel 2015 sono sbarcati migliaia di migranti e dove, purtroppo, si è stati costretti a realizzare un cimitero delle vittime dell’immigrazione sempre più vasto. Parole che hanno fatto scalpore, perché sono in aperta rotta di collisione con la politica comunitaria sui migranti.
Una posizione analoga è stata manifestata a Lampedusa, dopo la tragedia del 3 ottobre 2013, da Giusy Nicolini, la prima, tra tutti i sindaci europei, a parlare della necessità di istituire canali umanitari e vie legali di ingresso in Europa, per evitare che il Mediterraneo continui a riempirsi di vite spezzate e per sottrarre i profughi al ricatto dei trafficanti di uomini. Sulla strada aperta dai due piccoli comuni isolani si è inserito il sindaco di Barcellona, Ada Colau, con il piano “Barcellona città rifugio”, che ha moltiplicato i progetti e i finanziamenti per l’accoglienza dei profughi e che, circa un mese fa, il 16 marzo, ha portato a un accordo di collaborazione con Lesbo e con Lampedusa, alle quali è stato offerto il massimo appoggio per fronteggiare i problemi legati all’arrivo dei profughi. Un accordo analogo è in cantiere con Melilla e Ceuta, le due enclave spagnole in Marocco, per superare la politica che ha chiuso i confini con una triplice muraglia di filo spinato per bloccare i migranti.
Il principio guida della presa di posizione di Barcellona, Lesbo e Lampedusa è che le scelte di Bruxelles stanno uccidendo quei diritti umani che sono alla base dell’idea stessa di Europa Unita. E’ con questo stesso spirito che si è fatta strada la proposta di mobilitare in Italia quanti più comuni possibile in una battaglia di giustizia per i profughi e i migranti. Giustizia contro la violazione dei diritti e della dignità di donne e uomini, bambini e anziani, schiacciati tra le situazioni estreme che li hanno costretti a una fuga per la vita dal proprio paese e le politiche di respingimento di massa adottate da Roma e dall’Unione Europea. In sostanza, un progetto di città “aperte e solidali” sul quale sono chiamati a impegnarsi sia i sindaci sia i candidati nella campagna elettorale amministrativa in corso: in grandi realtà come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna ma anche in comuni medi e medio piccoli (Latina, Salerno, Rimini, ad esempio) e nei centri minori. Se ne è fatto promotore il Comitato Nuovi Desaparecidos, l’associazione sorta circa due anni fa per sollecitare una vasta, capillare operazione di verità e giustizia sulla catastrofe umanitaria che dal 2000 ad oggi ha provocato oltre 25 mila morti nel Mediterraneo, con una escalation impressionante: più di 600 solo nei primi tre mesi di quest’anno, oltre 4.000 nel 2015, circa 3.600 nel 2014. “Un massacro – sostiene Enrico Calamai, il portavoce del Comitato – che è frutto in gran parte dell’indifferenza della comunità internazionale e delle scelte mirate delle cancellerie occidentali”.
Non a caso l’appello – presentato a Roma il 4 aprile da Arturo Salerni, presidente del Comitato – è indirizzato ai sindaci, cioè ai Comuni. “I Comuni – sostiene Nuovi Desaparecidos – sono lo Stato in prima linea, quelli chiamati ad occuparsi praticamente di tutto: accoglienza, assistenza, inserimento sociale e integrazione, aiuti di vario genere nei casi di emergenza… Quelli, in una parola, che hanno a che fare tutti i giorni con la realtà della catastrofe umanitaria su cui chiediamo giustizia, quelli che si confrontano con le sofferenze delle donne e degli uomini che ne sono vittime, che misurano le contraddizioni di una politica che sempre più spesso mostra di considerare un ‘fastidio’ o peggio un pericolo, numeri e non esseri umani, i milioni di disperati che bussano alle porte della Fortezza Europa. Ecco, proprio per questo loro ruolo, la soluzione, una via concretamente percorribile, può venire dai Comuni. Le scelte di Barcellona, Lesbo e Lampedusa lo stanno dimostrando: quei sindaci e le loro amministrazioni hanno offerto soluzioni concrete, in contrasto con la mancanza di risposte e l’immobilismo degli Stati europei in merito alla crisi umanitaria dei rifugiati. Anche a costo di disobbedire a certi regolamenti, norme, accordi politici. Ma obbedendo a una esigenza superiore di giustizia”.
Già, a ben vedere il Comitato Nuovi Desaparecidos chiama i sindaci, se necessario, anche a una forma di disobbedienza: “C’è chi decide di disobbedire in nome del valore più alto della dignità umana, chi aiuta i profughi a varcare reti e frontiere, chi lo ha fatto in Austria, in Germania, nell’Italia stessa, chi lo fa quotidianamente fornendo aiuto, supporto, ospitalità. Chiediamo ai sindaci, allora, di assicurare ai profughi e ai migranti un’accoglienza adeguata, dignità, umana comprensione per la tragedia di cui sono vittime. Magari andando contro l’attuale sistema”.
Il modello di riferimento resta il piano “Barcellona città rifugio”, che per certi versi sta facendo della metropoli catalana la “capitale europea” dell’accoglienza: dallo scorso settembre a oggi sono stati aumentati i fondi per la prima accoglienza dei rifugiati presenti in città e raddoppiati i posti per ospitarli; avviato un programma di assistenza, finanziato con 300 mila euro, per chi è rimasto escluso dagli aiuti statali; stanziati 390 mila euro per vari progetti di assistenza ai profughi all’origine e in viaggio; messi a disposizione altri 300 mila euro per gli enti e le Ong che stanno operando nel Mediterraneo per aiutare i migranti. E, nel piano, il Comune ha saputo coinvolgere istituzioni cittadine, l’Area Metropolitana, il Consiglio Provinciale, numerosi privati, sia singolarmente che come associazioni, a cominciare dalla società di calcio, il popolarissimo Futbol Club Barcelona.
Pure in Italia, in verità, diversi Comuni hanno avviato forme ufficiose di assistenza, schierandosi di fatto su una linea di “disobbedienza”. Si è visto, in particolare, con i “transitanti”, le decine di migliaia di profughi che, nell’arco dell’intero 2015, hanno rifiutato di farsi identificare dopo lo sbarco per cercare poi di risalire la penisola e raggiungere altri Stati europei, aggirando il regolamento di Dublino che vincola i rifugiati al primo paese europeo a cui rivolgono la richiesta di asilo. Molti, nel loro difficile cammino dalla Sicilia alla frontiera delle Alpi, hanno trovato assistenza e sostegno, oltre che da numerose associazioni di volontari, anche da parte di varie amministrazioni locali, grandi e piccole, che magari si sono inventate mille espedienti per giustificare questi interventi “fuori dei canoni” e delle norme. Il Comitato Nuovi Desaparecidos chiede allora ai sindaci di uscire allo scoperto, di attuare interventi alla luce del sole come Barcellona e, in definitiva, di pretendere una riforma radicale del sistema.
“Nel caso dei migranti o rifugiati che transitano per le nostre città – si legge nell’appello ai sindaci e ai candidati – non basta chiudere un occhio di fronte al loro passaggio o addirittura assecondarlo più o meno ufficialmente con l’allestimento di centri di accoglienza gestiti più o meno direttamente dal Comune: serve che chi amministra una città si arroghi il diritto di contestare l’attuale normativa che regola il diritto di asilo riducendo i ‘transitanti’ a una condizione di ‘clandestinità’ e sottoponendo l’Italia ai rimproveri dell’Europa. Le città italiane, tutte attraversate in qualche modo da questo fenomeno, possono e devono inserire la propria voce nell’attuale discussione che sta dividendo il vecchio continente sulle politiche d’asilo. Dicendo forte e chiaro che comprendono le ragioni di chi sfugge all’identificazione per non finire in un centro di detenzione come, ad esempio, il Cara di Mineo. Ribadendo che il regolamento di Dublino che fissa la domanda d’asilo nel primo paese d’approdo, deve essere sostituito da un accordo che consenta ai profughi di raggiungere la meta per cui hanno intrapreso un viaggio così pericoloso”.
Si tratta in sostanza di attuare quanto il Comitato chiede fin dalla sua costituzione: verità e giustizia sulla tragedia dei profughi per arrivare a costruire vie legali di immigrazione e un nuovo sistema di accoglienza europeo, con lo stesso livello di trattamento e le stesse possibilità di inserimento sociale, condiviso e attuato da tutti i 28 Stati membri dell’Unione. “Proprio in questi giorni – afferma Enrico Calamai – si è detto a Bruxelles che il terribile accordo sottoscritto con la Turchia, che è di fatto un accordo di respingimento di massa, è stato indispensabile per ‘salvare’ Schengen e l’Unione Europea. Noi diciamo che l’Europa si salverà solo se al centro della sua politica saprà mettere il rispetto dei diritti umani che ne sono il fondamento”.
Emilio Drudi