Il Processo Condor si è avviato in questi mesi alla sua fase finale dopo la requisitoria del pm, la dott.ssa Tiziana Cugini che ha chiesto la pena dell’ergastolo per 30 imputati. Fra questi spiccano ex Capi di Stato ed esponenti delle giunte militari di Bolivia, Cile, Perù, Uruguay e Paraguay. Sono tutti accusati, a vario titolo, della morte di 23 cittadini di origine italiana
Devono rispondere di omicidio plurimo aggravato e di sequestro di persona. L’unica assoluzione è stata chiesta nei confronti del tenente di vascello Ricardo Éliseo Chávez Dominguez, uruguajano, capo delle operazioni speciali del Fusna, il servizio segreto della Marina.
Da fine ottobre si susseguono nell’Aula Bunker di Rebibbia le udienze dedicate alle discussioni degli avvocati di parte civile. Mario Angelelli e Arturo Salerni, avvocati di Progetto Diritti, hanno ripercorso nelle loro arringhe del 22 novembre le storie dei giovani uomini e delle giovani donne la cui esistenza è stata mutilata dalla violenza repressiva del decennio ’70-‘80. Una scure che secondo il rapporto della Commissione dei Diritti Umani argentina (del 1990), già a metà degli anni settanta contava quattro milioni di esiliati in paesi limitrofi, cinquantamila omicidi, almeno trentamila desaparecidos, quattrocentomila imprigionati e tremila bambini assassinati o scomparsi.
Questo processo, come ricordato da entrambi, è stata anche l’occasione per far rivivere i ragazzi e le ragazze scomparse, rendendo visibili alla coscienza collettiva la barbarie e la crudeltà dei momenti terribili da loro vissuti e l’infinita serie di momenti terribili vissuti dalle loro famiglie.
“Dalle loro vicende singole – afferma l’avv.Salerni- si ascende: gravi precisi e concordanti indizi accanto agli elementi probatori ci dicono cosa è stato il Piano condor, che ruolo hanno avuto i vari Paesi e quale quello dell’America del Nord. Il ruolo degli organi politici e politico militari e coloro che si determinarono nei passaggi successivi e intermedi”.
Il caso di Gerardo Francisco Gatti Antuña, uruguayano, la cui moglie è rappresentata dall’avv. Angelelli è paradigmatico dell’orrore e della vicenda umana e giuridica delle vittime. È importante anche perché è uno dei più documentati, grazie alle deposizioni di numerosi testimoni. Gatti era un sindacalista ma anche editorialista e direttore del periodico Lucha Libertaria. Nato a Montevideo nel 1931, come tanti suoi connazionali poco tempo prima del colpo di stato cerca rifugio in Argentina dove vive dal 1973 al 1976 insieme alla moglie e ai suoi tre figli. Qui insieme ad altri esuli aveva fondato Il Partido para la Victoria del Pueblo, in cui confluirono diversi gruppi che esprimevano dissenso per la politica uruguayana. Nel frattempo in Uruguay gli ufficiali avevano esautorato il Parlamento di tutte le sue funzioni e programmavano a tavolino l’uccisione degli avversari politici. Inizialmente Gerardo Gatti non aveva bisogno di essere clandestino. Nel 1975 la situazione degenera anche in Argentina e per dirla con le parole del figlio del senatore uruguayano Zelmar Michelini “si era aperta la caccia”. Così gli esuli cominciarono a sentirsi in pericolo anche nel nuovo Paese. “Proviamo a pensare – osserva l’avv. Angelelli- ai nostri partigiani esuli in altri Paesi, come la Francia, come avrebbero vissuto questa sensazione di sentirsi intrappolati e sentire la loro sicurezza minacciata anche nel Paese in cui avevano ripiegato per salvarsi dal regime” . In questa storia ritorna più volte una data, quella del 9 giungo. Il 9 giugno è il giorno in cui Gatti viene rapito Gatti nel 1976. Era il 9 giugno del 1999 quando la moglie di Gatti presentava alla Procura della Repubblica Italiana delle note in cui chiedeva aiuto in merito alla vicenda del marito. Con lei, all’epoca, davanti al pm Capaldo, l’avv. Mario Angelelli. Nelle storie che abbiamo ripercorso in quasi due anni di dibattimento, anche le testimonianze tormentate di chi si salvò dal tragico destino riservato ai propri compagni, cedendo alle torture e collaborando con i carnefici, come Maria Del Pilar Nores Montedonico, la segretaria di Gatti che venne arrestata insieme a lui. La vicenda di Gatti è legato a quello che uno dei più tragicamente noti luoghi dell’orrore, il centro di detenzione clandestino “Automotores Orletti”, a Buenos Aires, fulcro dell’operazione Condor,dove si era installata la base operativa del SID (Servicio de Información de Defensa uruguayano). Qui Gerardo Gatti fu torturato ogni giorno della sua detenzione. Sono almeno quattro i testimoni che raccontano di averlo visto in condizioni terribili, abbandonato sul pavimento, con un braccio infetto.
Ed è ancora in questa storia che – come sottolineato ancora dall’avv. Angelelli- viene alla luce il carattere prettamente mafioso delle azioni criminali commesse in quegli anni dai regimi del Sud America. “È sufficiente – sostiene – passare in rassegna gli atti processuali che riguardano le dittature miliari per rendersene conto. Con il termine “mafioso” intendo sottolineare come il profilo della brutalità finalizzata a se stessa e a scopi personali tipica delle organizzazioni criminali possa con tranquillità sovrapporsi al profilo del terrorismo ideologico. Non si è trattato di personaggi motivati da ideali e per questo disponibili anche a rendersi protagonisti di atti di barbarie proprie dei terrorismi di Stato, ma di individui inebriati di potere e ambizione, mossi della brama di arricchirsi a qualunque costo, soprattutto a quello della vita di tutte quelle vittime torturate e uccise”. Sono innumerevoli i casi che lo dimostrano, come la foto in cui compaiono Gerardo Gatti, ritratto durante la prigionia con un Washington Pérez, è che è stata usata come ripugnante mezzo per estorcere denaro.
“Abbiamo passato mesi ad ascoltare il racconto di una situazione lontana più di quaranta anni e da cui ci separa un oceano- ha ricordato Arturo Salerni- in un lungo cammino che ha significato innanzitutto attenzione e comprensione per il dolore umano che ha connotato quelle vicende”. Davanti alla Corte sfilano gli argomenti dell’unico imputato che si è presentato nel processo e residente in Italia l’uruguayano Jorge Nestor Troccoli e accanto a lui gli scomparsi, le madri desaparecide, i figli strappati alle madri, come la figlia di Alfredo Moyano Santander. Maria Victoria all’età di 10 anni ha aperto il percorso che l’ha portata alla scoperta della sua identità. Suo padre era un militante della Resistencia Obrero Estudiantil (ROE) in Uruguay e del Movimiento de Liberación Nacional-Tupamaro (MLN- T) in Argentina. Prelevato nel ’77 dalla sua casa a Buenos Aires insieme alla moglie María Artigas, incinta di un mese, fu detenuto presso i centri clandestini di Pozo Quilmes, Pozo de Banfield e COT 1 Martínez. In uno di questi centri nasceva Maria Victoria. È immedesimandoci nella sua vicenda che scopriamo il dolore, lo smarrimento di tutti i bambini che, come lei, hanno scoperto che gli slanci, gli abbracci, della loro infanzia sono stati per le stesse persone che si erano rese complici della barbara uccisione dei propri genitori.
Tutti i casi che gli avvocati hanno ripercorso, convergono nel rimarcare il carattere di lesa umanità, barbarie, premeditazione e crudeltà dei crimini presi in esame e, insieme, nell’enfatizzare il ruolo avuto dal coordinamento fra gli Stati all’interno del Piano Condor.
Nei Paesi del Cono Sur, con la fine delle dittature, si è aperto il bisogno collettivo, oltre che personale e familiare, di poter finalmente conoscere la verità individuare le responsabilità di chi si è macchiato di crimini, di chi ha coperto e nascosto i colpevoli.
Ma la ricostruzione della verità e della giustizia in quei Paesi nel corso è un processo lungo e difficile, con implicazioni delle alte sfere istituzionali, ancora oggi condizionato da minacce, resistenze, omertà, coperture e con ramificazioni ben oltre i confini delle singole nazioni.
Anche per questo il Processo che si svolge in Italia assume significato e importanza di portata universali.
E, infine, come hanno ricordato gli avvocati, questo è il processo per i familiari degli scomparsi. Per loro, come ha ricordato la figlia di Héctor Giordano Cortazzo, uruguayano, militante del Partito Comunista Rivoluzionario, sequestrato a Buenos Aires e da allora desaparecido, la sparizione non ha significato solo non avere un posto dove portare dei fiori, ma rimanere sospesi in una condizione di tormentata, inestinguibile attesa. Per loro avere giustizia significherebbe poter mettere un punto e ripartire, finalmente, con la propria vita.