“Se si fosse voluto combattere il traffico degli esseri umani si sarebbe dovuta portare l’attenzione sul rinnovo del memorandum con la Libia piuttosto che sull’azione delle Ong”, come hanno documentato tutti i rapporti Unhcr degli ultimi anni”. A commentare così il decreto Piantedosi è stato l’arcivescovo Gian Carlo Perego, presidente della Fondazione Migrantes e della Commissione Cei per le migrazioni, presso le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Trasporti.
“Vista la situazione della crescita di arrivi e di salvataggi via mare di migranti provenienti da almeno 60 Paesi del mondo, molti dei quali in situazione di guerra, disastri ambientali, miseria e rischio della propria vita- ha spiegato Perego – dal Decreto ci saremmo aspettati, come Fondazione Migrantes della Cei, nuovi impegni e nuove norme per la tutela, la protezione o il rimpatrio dei migranti salvati nel Mediterraneo”.
Alcuni punti del decreto, ha proseguito l’arcivercovo, sono “in contraddizione con le Linee guida sul trattamento del soccorso in mare e con alcune Convenzioni internazionali, in almeno tre punti della modifica: la richiesta al comandante di avviare la procedura di domanda di protezione internazionale; l’impossibilità di azioni diverse di salvataggio nel tragitto per raggiungere il porto più vicino e più sicuro; la difficoltà di sbarco, comunque, delle persone salvate in mare in una situazione emergenziale”.
Inoltre, per il presidente di Migrantes, “il Decreto non fa riferimento ai veri problemi che richiamano gli arrivi dal Mediterraneo: l’accoglienza sull’isola di Lampedusa, con il rafforzamento delle forme di tutela sanitaria dei migranti sbarcati, l’identificazione e all’accesso al centro, il sovraffollamento del centro che genera insicurezza anzitutto dei migranti, le misure nuove per decongestionare il centro, gli arrivi autonomi dei barchini e la loro gestione, che corrispondono al 50% di tutti gli arrivi. Non una parola di nuovi accordi con i Paesi di partenza dei migranti. Non una parola sulla situazione di questi Paesi di partenza. Nessun riferimento all’Europa e, in particolare, ad accordi con i diversi paesi per l’accoglienza dei migranti richiedenti asilo e all’ampliamento di esperienze altre di ingressi regolari, come i corridoi umanitari, purché non siano limitativi e selettivi degli ingressi. Nessun riferimento ai flussi via terra, che hanno gli stessi numeri, e ai problemi connessi sulla tutela e la protezione dei migranti”.
Secondo monsignor Perego, “al fine di affrontare i problemi delle migrazioni dal Mediterraneo e della tutela dei richiedenti asilo, il decreto non ha nessun valore aggiunto”. Anzi, per l’arcivescovo, “peggiora la situazione in ordine all’obbligo del salvataggio in mare dei migranti, alla loro tutela e protezione, generando insicurezza dei migranti in pericolo”. Inoltre, “il decreto indebolisce di fatto il principio costituzionale della sussidiarietà che, all’art. 118 recita ‘Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà’. L’articolo 118 applicato alla specifica situazione dell’azione delle navi della società civile dovrebbe vedere lo Stato favorire e non indebolire l’impegno a realizzare questo obbligo di salvataggio e di tutela dei migranti. Per queste ragioni il destino del decreto dovrebbe essere solo la sua abrogazione”, ha concluso.
Lo stesso decreto, alla fine del 2022, era stato definito dall’avvocato di Progetto Diritti Arturo Salerni “un decreto Erode”. “Emerge la volontà di rendere più complicato e meno praticato il soccorso delle persone in pericolo in mare da parte delle Ong”, aveva dichiarato Arturo Salerni in un’intervista video a La Presse.
“Un singolo mezzo di soccorso- sono le parole dell’avvocato- può fare una sola operazione di salvataggio. Quindi una nave che potenzialmente potrebbe salvare 400 persone, salva le prime 30 e poi si deve allontanare dallo scenario in cui si verificano, con dati probabilistici, i distress, le situazioni in cui è necessario un intervento di salvataggio. Si manda in un porto di destinazione che non è il POS, il porto di salvataggio più vicino rispetto al luogo del salvataggio. Si possono verificare situazioni paradossali in cui si fanno operazioni di salvataggio, si verificano situazioni con necessità di search e rescue vicine con la nave che non può compiere il salvataggio. Con la conseguenza che quell’imbarcazione instabile e sovraccarica è destinata a una tragica fine“.
Per l’avvocato Salerni, “non ha senso ragionare a valle: elimino i mezzi di soccorso quindi rendo più facile la morte delle persone. Questi tentativi di derogare al diritto internazionale umanitario mi appaiono in contrasto con le norme che devono disciplinare la materia. L’elemento che dovrebbe porre in contrasto è richiedere che le domande di protezione internazionale avvengano sulle navi e che questo sposti l’individuazione del paese di primo approdo e così stravolga i criteri del regolamento di Dublino. Potrebbe essere un elemento che pone dei contrasti o potrebbe spingere le autorità dei Paesi le cui bandiere sono battute dalle navi delle Ong a rendere più difficoltoso le operazioni di soccorso. Potrebbe esserci il desiderio di spostare indietro gli ostacoli”, ha concluso.
Fonti: Ansa, La Presse.