I profughi invisibili della capitale L istantanea dei rifugi “informali”

fonte: laRepubblica.it

ROMA – In molti ricorderano la vicenda drammatica delle centinaia di profughi somali assiepati come polli da batteria 2 in quell’autentico porcile che era diventata l’ex ambasciata della Somalia di via dei Villini, a Roma. Bene, la capitale ancora oggi non disdegna di riservare scenari ben più vergognosi, a distanza di due anni. Delle oltre 6000 presenze di titolari di protezione internazionale presenti all’interno del Raccordo Anulare, solo 2000 trovano un posto d’accoglienza dignitosi, mentre altrettanti continuano ad essere soltanto dei nomi scritti nella lista dell’Ufficio immigrazione del Comune, sopravvivendo come possono in un’attesa che sembra non finire mai. 

La forza di un censimento. Porta il titolo di “Rifugiati invisibili” il censimento realizzato da Fondazione IntegrA/Azione 3, una realtà costituita da Legambiente 4Cooperativa Abitus 5. Una ricognizione che permette di sapere come siano ormai 1700 i rifugiati politici, con regolare permesso di soggiorno, che abitano in luoghi fatiscenti, grandi occupazioni con centinaia di uomini e donne in condizioni abitative che un linguaggio moderato definisce “precarie”, ma che il termine “indecenti” non basterebbe per descrivere lo stato delle cose. E questo solo se si considerano i grandi edifici, quando va bene, e non si prendono invece in considerazione le baraccopoli di cartone e lamiere, dove spesso sono costretti a crescere anche molti bambini. 

Un’istantanea spietata. Quella della Fondazione IntegrA/Azione è un’istantanea spietata sulla situazione romana dell’accoglienza di richiedenti asilo, rifugiati politici e titolari di protezione internazionale, non altro che la conferma di come sia ormai palese la scelta politica di sospingere questa massa di persone verso i confini estremi della società, fino al limite dell’invisibilità, appunto. Le occupazioni di massa alla Romanina, alla Collatina, a Ponte Mammolo rappresentano solo la punta emergente di una realtà assai più vasta e polverizzata. Situazioni già di per sé avvilenti, cui si aggiungono centinaia di centri d’accoglienza, per così dire “informali”, fioriti nei luoghi più reconditi della città, tutti distanti dall’attenzione dell’opinione pubblica, ma dove prosegue l’esistenza semi nascosta di un’umanità che sopravvive tra scatole di cartone, coperte e fogli di giornale. 

“Non è un problema di ordine pubblico”. “Si tratta di un’emarginazione sociale particolarmente grave, per uomini, donne e bambini cui l’Italia dovrebbe garantire una protezione internazionale e un’accoglienza dignitosa  –  dichiara Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrA/Azione – Stabilire con certezza quali siano i numeri dei rifugiati invisibili a Roma è estremamente complesso, anche per i luoghi sempre più marginali dove si cela. Un problema tanto vasto e delicato non può e non deve essere improntato soltanto all’ordine pubblico. Aumentare i posti disponibili in accoglienza non può rappresentare una soluzione univoca ed efficace, sia per i costi difficilmente sostenibili che per il rischio di spostare semplicemente il problema nel tempo, senza risolverlo”.

Ciò che Roma può offrire. La maggior parte dei rifugiati informali, negli ultimi anni non ha fatto altro che entrare e uscire da un centro di accoglienza per poi entrare in un altro. Senza nessuno strumento per guadagnare un minimo di autonomia duratura, sia per quanto riguarda un alloggio decente, che – meno che mai – per un’occupazione. Quello che il Comune di Roma, a tutt’oggi, riesce a garantire sono 2.200 posti d’accoglienza. Fine. La fetta più grossa di questa “torta” è sul tavolo del privato-sociale in convenzione diretta con il Campidoglio, con 19 centri d’accoglienza, con circa 1.250 posti letto. 

Il decreto “Emergenza Nord Africa”. Il Centro Polifunzionale Enea di seconda accoglienza completa il quadro con i suoi 700 posti, destinati a diventare circa 800 nei prossimi mesi. E va ricordato poi che, a seguito dello stato di emergenza dichiarato con i decreti del Presidente del Consiglio del 12 febbraio e 7 aprile 2011, nota come “emergenza Nord Africa”, sono nati nuovi centri d’accoglienza per ospitare oltre 1.000 nuovi richiedenti asilo. Nel frattempo, il Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati 6(SPRAR), garantisce l’assorbimento dei rifugiati con sempre maggiore difficoltà, a causa del mancato finanziamento da parte del Governo.

Storie diverse, spesso irraccontabili. A questi vanno aggiunti altri 250 posti letto, in due strutture per l’emergenza abitativa, ma prestate all’accoglienza dei RAR, (Richiedenti Asilo Roma) sempre gente che rischia la vita se torna a casa tua, che è scappata senza possibilità di tornare dove è sempre vissuta e che si porta dietro storie difficili, spesso irraccontabili, storie che però non sono tutte uguali, tanto da non essere capaci neanche di trasformare tutti “fratelli”, vittime di identiche tragedie. 

Una situazione che rischia di esplodere. “E’ evidente – dice il Senatore Francesco Ferrante, che di Fondazione Integra/Azione è il vicepresidente – che solo interventi concreti che garantiscano un serio percorso d’integrazione lavorativa, sociale e abitativa possono rappresentare la via per spezzare l’accoglienza informale di queste migliaia di persone. Una situazione drammatica, che rischia di esplodere se chiuderanno i centri d’accoglienza aperti con la dichiarazione dello stato d’emergenza umanitaria e in scadenza il 31 dicembre 2012. Un esercito di altri 2170, rifugiati solo nel Lazio, che si troverebbe in mezzo alla strada”.

Ecco le più grandi occupazioni a Roma. 

Romanina. Si trova in via Arrigo Cavaglieri ed è un’occupazione abitativa chiamata anche “Salam” (Salute, Pace, Salvezza), realizzata nella vecchia sede dell’Università di Tor Vergata e che oggi conta tra i 500 e i 600 occupanti. Nella struttura, oltre a donne e uomini singoli, ci sono anche circa 20 nuclei familiari con figli piccoli, alcuni neonati. I servizi sono decrepiti, pochi quelli igienici e in condizioni inaccettabili. Le utenze di luce e acqua sono attive, manca però l’impianto di riscaldamento, sia per gli ambienti che per le acque sanitarie. 

Collatina. L’occupazione è chiamata “Natnet” (libertà), è sorta in uno stabile di proprietà del ministero del Tesoro, inutilizzata e abbandonata perché rischia di crollarein quanto costruita su una falda acquifera. Al suo interno si contano circa 700 persone registrate, tra eritrei ed etiopi (di cui 10 nuclei familiari, con figli minori). Sono attive le utenze di luce e acqua, ma manca il riscaldamento per gli ambienti e le acque sanitarie. La struttura e i servizi igienici sono, per usare un eufemismo, impresentabili. E c’è chi vive questa condizione  (sono tanti) con un forte disagio psichico, presentando sintomi da stress da disturbi post-traumatici.

Ponte Mammolo. E’, fra le situazioni informali, la meno conosciuta. Sorge lungo viale Palmiro Togliatti, sotto del livello stradale, una vera e propria bidonville dove vivono più di  150 persone. Non ci sono donne sole, ma qualche famiglia di origine romena con figli. Gli abitanti vivono, nella maggior parte dei casi, nelle tende; qualcuno in casupole di  cartongesso fin dal 2006. Alle tende, pian piano si sono affiancate piccole abitazioni di muratura, costruite nel corso degli anni dalla stessa comunità e, in numero inferiore (circa il 30%) baracche di lamiera. Qui manca l’acqua e il riscaldamento: solo una fontanella pubblica garantisce l’approvvigionamento idrico per tutti. Nessun servizio igienico, a parte un bagno in muratura in condizioni pessime e che non è neanche allacciato alla rete fognaria. C’è poi un’unica doccia pubblica. che però non funziona.

Ostiense. Ground zero, oppure: Kabul romana, o ancora: la buca. Sono tanti i nomi che definiscono la tendopoli degli afgani che, dal 2005, gravita attorno alla stazione Ostiense e che oggi si va gradualmente ripopolando, dopo che un mese fa era stata sgomberata per portare a termine i lavori necessari alla presentazione del grande progetto ferroviario firmato Montezemolo. 

Tor Marancia. Qui è stata creata una tensostruttura per ospitare circa 150 abitanti, in prevalenza giovani afgani. Il tendone-dormitorio non ha però cambiato le condizioni che generano il disagio e la precarietà esistenziale. Si è agito sul sintomo, insomma, mentre le cause ci sono ancora tutte lì: i ragazzi, appartenenti anche a diverse etnie afgane e, dunque, spesso non in perfetta sintonia fra loro, sono letteralmente abbandonati a loro stessi, mentre la Kabul romana risorge sotto gli occhi di tutti, lungo i binari della stazione Ostiense e nelle zone circostanti.