In un reportage del New Yorker, il giornalista Ian Urbina, gestore dell’organizzazione no-profit Outlaw Ocean Project, recatosi in Libia, ripercorre la storia di Aliou Candé un giovane della Guinea-Bissau morto in una prigione di Tripoli dopo mesi di tentativi di raggiungere l’Europa. La sua storia è purtroppo l’esempio più limpido delle politiche migratorie disumane messe in atto da quest’ultima.
Come è già noto, spiega Urbina, l’Ue ha creato un sistema di immigrazione ombra che cattura le persone migranti prima che raggiungano le sue coste, per poi mandarle nei brutali centri di detenzione libici gestiti dalle milizie. Le agenzie di aiuto internazionali hanno documentato una serie di abusi: detenuti torturati con scosse elettriche, bambini stuprati dalle guardie, estorsioni per ottenere un riscatto dalle famiglie, uomini e donne venduti come schiavi. “L’Unione Europea ha fatto qualcosa che ha […] pianificato per molti anni”, ha detto Salah Marghani, ex ministro della Giustizia libico in carica dal 2012 al 2014, al giornalista, “creare un inferno in Libia, con l’idea di dissuadere le persone dal dirigersi verso l’Europa”. Adjara Keita, una donna migrante di trentasei anni della Costa d’Avorio, detenuta ad Al Mabani per due mesi, ha raccontato al giornalista che le donne venivano spesso prelevate dalle loro celle per essere violentate dalle guardie.
Il reportage di Urbina è l’ennesima testimonianza delle violazioni dei diritti umani che derivano dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Ue e da una mobilità internazionale sempre più diseguale.
Fonte: Open Migration