Il 31 gennaio del 2009 Diouf Cheikh, cittadino senegalese residente a Civitavecchia, veniva ucciso con un colpo d’arma da fuoco da Salvatore Morra, detto Paolo, ispettore della polizia. I due erano vicini di casa e secondo la ricostruzione accertata in sede processuale, la mattina in cui si consumò il delitto, il poliziotto si era introdotto nel cortile dell’abitazione di Diouf armato di un fucile da caccia e, mentre la vittima gli si faceva incontro aveva sparato due colpi in rapida successione ferendolo alla gamba e causandogli la recisione dell’arteria femorale e la successiva morte per dissanguamento. Diouf lasciava sei figli, all’epoca tutti minorenni, avuti dalle due mogli (con cui aveva una relazione poligamica secondo il rito islamico) e la madre. I suoi familiari vivevano insieme in Senegal e Diouf era solito andarli a trovare ogni anno nei mesi invernali.
Il caso suscitò molto clamore e interesse mediatico dal momento che emerse subito che la violenza era esplosa per futili motivi. All’omicidio aveva anche dedicato una puntata dal titolo “L’ispettore Morra” la trasmissione Un giorno in Pretura il 18 gennaio 2014.
In primo grado l’ispettore Morra era stato condannato per omicidio volontario a 10 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In sede di appello, con sentenza del giugno 2011, il reato veniva derubricato a omicidio preterintenzionale ritenendo il giudice che se Morra avesse voluto coscientemente sopprimere la vita del povero Diouf, non avrebbe dovuto far altro che alzare di pochi centimetri l’arma che imbracciava. Inoltre, nel corso del procedimento, era emerso il giudizio di seminfermità mentale dell’omicida dal momento che la perizia psichiatrica aveva riconosciuto l’imputato affetto da un grave disturbo di Personalità N.A.S. (personalità mista del gruppo B con notevoli caratteristiche borderline, narcisistiche, istrioniche e antisociali).
Quello che è emerso dal procedimento nei vari gradi di giudizio, non è però solo la piena responsabilità penale dell’imputato, ma anche degli inquietanti profili di responsabilità a carico del Ministero dell’Interno le cui disattenzioni, negligenze e omissioni, secondo i legali dei familiari di Diouf, gli avvocati Luca Santini e Mario Angelelli di Progetto Diritti, hanno avuto un’efficacia concorrente nella causazione del fatto mortale. Questa del resto è la tesi accolta dal Tribunale Civile di Roma – seconda sezione civile, che ha condannato con sentenza del 5 aprile 2018, il Ministero dell’Interno a corrispondere la somma di circa 600 mila euro ai familiari di Diouf a titolo di risarcimento per danni materiali, morali ed esistenziali subiti in seguito alla morte del congiunto.
Dal fascicolo personale di Salvatore Morra, depositato agli atti del processo, emergono infatti una serie di precedenti di rilievo disciplinare e medico a suo carico che avrebbero dovuto indurre l’Amministrazione a ben altra cautela nel disporre l’autorizzazione all’uso delle armi e che anzi avrebbero dovuto condurre alla sospensione dal servizio. Più volte nel corso degli anni il poliziotto era stato sospeso temporaneamente dal servizio in relazione a procedimenti penali in cui era coinvolto e a diversi episodi di rilievo psichiatrico, riconducibili a “nevrosi ansiosa”. Nel 2007, in particolare, Morra era stato denunciato dalla figlia per minaccia a mano armata (si trattava dello stesso fucile con cui poi ha ucciso Diouf) e per lesioni. Il Ministero aveva dunque gravemente sottovalutato le condizioni di salute e i precedenti penali e disciplinari del suo dipendente e la Commissione Medica Ospedaliera – l’organo consultivo di cui l’Amministrazione si avvale per al fine di verificare le condizioni di salute e l’idoneità al servizio degli appartenenti alle forze dell’ordine – non risulta aver condotto test o indagini accurate che avrebbero evidenziato l’incompatibilità tra la patologia psichiatrica di Morra e la sua appartenenza al copro delle Polizia e all’uso delle armi. A ciò si aggiunge la gravissima inadempienza dell’Amministrazione nel dare attuazione al provvedimento di ritiro dell’arma emesso il 17 aprile 2018 dall’Ufficio Porto d’Armi della Questura di Roma. In considerazione di tutti questi elementi, il Tribunale civile di Roma ha riconosciuto, come richiesto dai legali dei familiari, una responsabilità del Ministero dell’Interno (ex art. 2043 c.c.) per aver concorso con la propria condotta omissiva alla causazione del delitto, “dal momento che appare logico ritenere – sostiene il giudice- che il mantenimento del possesso di un’arma da fuoco in capo a un soggetto affetto da ripetute e persistenti forme di patologia psichica abbia come suo possibile sviluppo logico prevedibile l’uso dell’arma medesima contro la persona altrui”.
L’associazione Progetto Diritti, nel rinnovare l’espressione del proprio cordoglio per questi tristi fatti, chiede al Ministero dell’interno di riconoscere formalmente e definitivamente la proprie responsabilità per l’accaduto e di eseguire sollecitamente la sentenza senza interporre appello. Da quasi dieci anni i familiari e i figli di Diouf attendono giustizia dal Senegal, e questa è l’occasione per un gesto di riparazione da troppo tempo atteso.