Le scelte del Governo su giustizia, sicurezza e immigrazione segnano un grave ritorno al passato

di Arturo Salerni e Mary Cortese

I decreti legge varati dal Ministro dell’Interno e dal Ministro della Giustizia, che peraltro è uno dei candidati alla segreteria del Partito Democratico, sono la dimostrazione di una continua rincorsa alle parole d’ordine xenofobe e securitarie che caratterizzano il dibattito politico in Italia. La gara è a chi è più duro o comunque più efficace contro migranti, poveri e piccola delinquenza.

La stessa decisione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro Orlando (che evidentemente anche su questo poggia la sua corsa alla leadership del Pd) di porre la fiducia sul disegno di legge di riforma della giustizia, che ha portato all’approvazione del testo da parte del Senato, va nella stessa direzione: la cosiddetta riforma, fra le altre cose, contiene l’aumento dei termini di prescrizione per tutti i reati e un aumento consistente delle pene per il reato di furto in abitazione, e ricalca i vari “pacchetti sicurezza” del Ministro leghista Maroni.

L’aumento dei termini di prescrizione, nella misura irragionevole contenuta nel testo approvato dal Sentato, si pone in contrasto con il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena. È chiaro che punire per un reato minore una persona dopo dieci anni dalla commissione del reato, non va certo nel senso della finalità rieducativa, ma vuole rispondere soltanto a un’esigenza di natura retributiva rincorrendo un giustizialismo ormai imperante. Ed è una rincorsa che sconfessa decenni di elaborazioni progressiste sul tema del diritto penale, di cui una manifestazione è stata la recente introduzione di pene altissime per l’omicidio stradale, che naturalmente innesca una corsa al rialzo delle risposte sanzionatorie anche con riguardo ad altri fenomeni delittuosi di pari o superiore allarme sociale.

Non andiamo quindi verso una riduzione dell’area dell’illecito penale e della pena carceraria ma verso l’esatto contrario, e sappiamo che si tratta di scelte demagogiche a fronte della riduzione del numero dei reati e della constatazione che a un sistema con pene più gravi e con più alti tassi di condanne e di carcerazione di norma corrisponde un aumento dei fenomeni delittuosi.

L’aumento della pena per i furti in abitazione porta il minimo della condanna a tre anni di reclusione, equivalente alla pena minima prevista per la rapina, il peculato, e la bancarotta fraudolenta. Crediamo che proprio la misura dell’entità delle pene per il furto sia la cartina di tornasole del grado di pesantezza sanzionatoria di un sistema penale: e da essa si comprende se si va nel senso di un aggravamento complessivo delle pene, o di un’ipertrofia del sistema e della sanzione penale, o se si va nel senso, voluto dal costituente, della riduzione dell’area dell’illecito penale e della pena detentiva.

È vero che nel disegno di legge sono contenute anche alcune norme per il miglioramento della vita nei penitenziari, in linea con le misure positive successive alla sentenza Torreggiani, della Corte di Strasburgo, adottate sotto la spinta dei ministri Cancellieri prima e Orlando poi , ma l’effetto complessivo sarà che la detenzione riguarderà un numero molto superiore di detenuti. Miglioreranno semmai gli istituti normativi ma non le condizioni, perché più un carcere è sovraccarico più è difficile mettere in campo gli strumenti finalizzati al reinserimento sociale.

Alla domanda se si vuole più o meno carcere oggi questo governo risponde: vogliamo più carcere. Vogliamo più processi penali, vogliamo più persone colpite da una condanna penale e quindi in qualche modo limitate nella loro vita sociale futura.

Sulla stessa linea, quella di un pesante ritorno al passato, si colloca il Decreto Sicurezza. Il decreto legge recante “Norme in materia di sicurezza urbana, nonché a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano, già approvato alla Camera, introduce la possibilità, senza che siano stati commessi reati, di imporre limitazioni fortissime alla libertà delle persone in relazione alla loro condizione di povertà, di mendicità, di presunta pericolosità dovuta alla emarginazione e alla marginalità.

Questa strumentazione ricalca quella che era stata prevista dai decreti Maroni su cui sono intervenute peraltro diverse pronunce di incostituzionalità circa i poteri dei sindaci di emettere ordinanze limitative. Questa è la strada scelta oggi dal governo in vista delle prossime elezioni politiche: anteporre l’ideologia del decoro ai bisogni e ai diritti sociali delle persone. Le misure previste dal decreto sono sanzioni pecuniarie e allontanamenti. Ma le violazioni di queste disposizioni porteranno a immettere i destinatari dei provvedimenti (quindi i poveri e gli emarginati) nel circuito penale (art,. 650 cp). Senza alcun controllo giurisdizionale si adottano misure fortemente limitative della libertà delle persone.

Il Decreto legge sull’immigrazione riguarda in particolare le procedure amministrative e giurisdizionali in materia di protezione internazionale.

Il decreto prevede al capo primo l’istituzione, presso i Tribunali, di quattordici sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea. L’istituzione di sezioni speciali potrebbe non avere risvolti negativi se venissero accorpati tutti i procedimenti in materia di immigrazione, invece continua a vivere una divisione tra competenze del giudice di pace, del tribunale ordinario, dei tribunali amministrativi regionali. Le sezioni speciali così concepite non risolvono pertanto il problema del groviglio di disposizioni processuali e di autorità competenti attualmente esistenti. Inoltre il decreto prevede complessivamente una riduzione del numero dei fori territorialmente competenti, il che si tradurrà in una maggiore difficoltà di adire la giustizia da parte dei cittadini stranieri. Il senso complessivo del decreto con l’istituzione delle sezioni specializzate, più che andare nel senso di un luogo assolutamente competente nella materia trattata, esplicita la volontà politica di istituire delle corsie capestro per allontanare le persone che faticosamente raggiungono il nostro Paese.

Questo decreto segue ed è perfettamente in linea, peraltro, con gli accordi con la Libia e con la Turchia (non a caso è firmato anche dal Ministro degli Esteri Alfano) con i quali di fatto l’Italia delega a Paesi in cui sono calpestati i diritti umani e, in alcuni casi, ai paesi da cui si fugge, il compito di valutare l’esistenza delle condizioni di protezione. Il nostro governo si rende complice degli omicidi e dei massacri che verranno perpetrati nei confronti di queste persone in quei Paesi.

Le misure previste dal decreto nell’articolo 6 (modifiche al decreto legislativo del 28 gennaio 2008, n,25) presentano dei profili non solo discutibili, ma di assoluta mortificazione del diritto di difesa sia in relazione alle procedure per la conoscibilità del procedimento sia per la compressione dei tempi.

Le modifiche apportate all’articolo 11, comma 3 del dlsg n.25 del 28 gennaio 2008, introducono un sistema di notificazioni degli atti che non garantisce la certezza della ricezione da parte dello straniero interessato e pertanto l’effettività del diritto a esperire ricorso all’autorità giudiziaria. Nei casi in cui lo straniero risieda in un centro gli atti e i provvedimenti del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale vengono indirizzati al responsabile del centro. Questi ne comunica l’avvenuta ricezione anche nel caso in cui il richiedente si rifiuti di ricevere l’atto o di sottoscrivere la ricevuta o sia irreperibile. Non avremo mai la certezza che l’atto notificato – dalla portata così rilevante – sia arrivato al soggetto interessato. Sotto questo aspetto vi è un profilo di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 24 comma 1 della Costituzione (“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”). Tanto più in una situazione in cui in gioco potenzialmente è la vita delle persone è chiaro che la massima cautela dovrebbe essere utilizzata e richiesta.

L’art 14 del decreto legislativo n.25 del 28 gennaio 2008, come da modifiche introdotte dal decreto, introduce una degli elementi più problematici dell’intero sistema di misure: la video-registrazione del colloquio del richiedente protezione internazionale con la Commissione. Il colloquio è videoregistrato con mezzi audiovisivi e trascritto in lingua italiana con l’ausilio di mezzi automatici di riconoscimento vocale. L’interprete verifica la correttezza della traduzione. Quando il colloquio non può essere videoregistrato dell’audizione è redatto verbale sottoscritto dal richiedente. Innanzitutto sono da evidenziare le problematicità inerenti la possibile e comprensibile reticenza di chi scappa dal proprio Paese lasciando una serie di persone e di familiari in pericolo.

Il ricorso va proposto entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento negativo, e restano tantissime le ipotesi in cui la proposizione dello stesso non sospende l’efficacia del provvedimento impugnato. Ciò significa permettere, prima dell’esito del ricorso, l’espulsione di persone prima di una valutazione più accurata del caso, con il rischio della vita e dell’incolumità dei soggetti espulsi prima del vaglio giurisdizionale. L’esame del caso si riduce a un contraddittorio cartolare in cui l’oralità viene abbandonata: si riduce pertanto la possibilità della difesa di incidere e raggiungere un giudizio più ponderato in una materia di una delicatezza assoluta. Il giudice di fatto, salvo che non ritenga che la questione sia particolarmente, svolgerà il proprio giudizio solo sulla base della videoregistrazione e su atti scritti.

La sospensione dei termini processuali nel periodo feriale non opera nei procedimenti di cui all’art. 35 bis: questo comporta non pochi problemi nel periodo estivo in cui certamente lo straniero incontrerà più difficoltà a reperire un difensore.

Particolare rilievo assume anche la possibilità effettiva per il richiedente di usufruire del patrocinio a spese dello Stato. In caso di rigetto del ricorso, l’ammissione al patrocinio si avrà nel caso in cui il giudice, non ritenga lo stesso manifestatamente infondato. Un diritto quello a una vera assistenza (art 24 Cost. “Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.) rimesso totalmente alla valutazione del giudice il quale si deve muovere sulla sottile linea che divide l’infondatezza dalla manifesta infondatezza.

L’art. 7 del Decreto introduce modifiche al Decreto legislativo n. 150 del 1° settembre 2011, disponendo innanzitutto l’eliminazione del giudizio in appello. L’eliminazione del grado d’appello significa che per il nostro governo la vita delle persone conta meno di una questione condominiale o della distruzione del parafango di un’autovettura.

L’art.8 apporta modifiche al decreto legislativo 18 agosto 2015 n 142 (“Attuazione della direttiva 2013/33/UE recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, nonché della direttiva 2013/32/UE, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale”).

All’art 6 comma 5 del decreto n. 142 si aggiunge la seguente previsione: “la partecipazione del richiedente all’udienza per la convalida avviene ove possibile, a distanza mediante un collegamento audiovisivo, tra l’aula d’udienza e il centro nel quale è trattenuto. È consentito al difensore di essere presente nel luogo in cui si trova il richiedente. Un operatore della polizia di stato è presente nel luogo in cui si trova il richiedente”. Non vi è bisogno di alcun commento per evidenziare quanto le possibilità di difesa e partecipazione nel procedimento giudiziale vengano a essere ridotte.

I Centri di Permanenza per i Rimpatri previsti dall’art. 19 (“Disposizioni urgenti per assicurare l’effettività delle espulsioni e il potenziamento dei centri di permanenza per i rimpatri”) rappresentano un ulteriore momento in cui la limitazione della libertà delle persone è sganciata dalla commissione dei reati. La scelta di privare della libertà personale coloro che si suppone abbiano commesso illeciti amministrativi, va avanti a partire dalla Legge Turco Napolitano del 1998, e tale previsione subisce ammorbidimenti o irrigidimenti a seconda delle fasi politiche. I centri si inseriscono nell’ambito di una previsione della privazione della libertà senza la commissione di alcun reato, e ciò è assolutamente inaccettabile sotto ogni profilo di civiltà giuridica.

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