Domani 17 gennaio 2017, nell’Aula Bunker di Rebibbia a Roma, sarà emessa la sentenza del Processo Condor per il sequestro e l’omicidio di quarantadue giovani, tra cui ventitré italiani, avvenuti in Cile, Argentina, Bolivia, Brasile e Uruguay tra il 1973 e il 1978. Gran parte di loro sono ancora oggi desaparecidos, i corpi non sono mai stati ritrovati.
Un dibattimento durato quasi due anni in cui, nel corso di sessanta udienze, sono stati ascoltati decine di testimoni, familiari e compagni di prigionia delle vittime ed esperti, ed è stata esaminata una mole incredibile di documenti. Trentaquattro gli imputati, appartenenti alle più alte gerarchie dei regimi militari che tra gli anni ’70 e ’80 hanno governato i Paesi dell’America Latina macchiandosi di crimini atroci e agendo al di fuori di qualsiasi alveo costituzionale e nella più totale impunità.
Per ventisette di loro la Pm Tiziana Cugini, nella sua requisitoria del 14 ottobre 2016, ha chiesto la pena dell’ergastolo, essendo quattro imputati deceduti nel corso del procedimento. Mentre per il militare uruguaiano Ricardo Eliseo Chávez Domínguez, è stata chiesta l’assoluzione.
Grande è l’attesa per conoscere come si pronuncerà la Corte, presieduta dalla dott. ssa Evelina Canale, perché l’esito di questo processo può servire a dimostrare che i crimini contro l’umanità non si prescrivono nella coscienza dei popoli. Non si tratta solo del doveroso riconoscimento ai parenti dei desaparecidos, un’intera generazione sterminata in un contesto dominato dalla violazione sistematica di ogni diritto. Il suo significato scavalca i confini storico-geografici dei fatti sotto giudizio, per servire da monito alle derive che offendono l’umanità anche nei nostri giorni.
Progetto Diritti, con gli avvocati Arturo Salerni e Mario Angelelli, ha seguito questo percorso giudiziario e umano sin dai lontani esordi, quando nel 1999 i familiari di otto desaparecidos presentarono denuncia presso la Procura della Repubblica. È stato un lavoro ostinato e coraggioso, considerate anche le difficoltà di formare delle prove a quaranta anni di distanza. Un lavoro sostenuto nella consapevolezza che esista un filo indistruttibile fra le aberrazioni di quegli anni e le atrocità che oggi si compiono in ogni parte del mondo.
Per questo difendere le ragioni di chi ha visto deumanizzare i propri familiari vittime inermi di fatti da cui ci separano quaranta anni di storia e un oceano, è un dovere per chi lotta ogni giorno per sostenere i diritti e le libertà civili.