Domenica 17 aprile saremo chiamati a votare per il referendum che riguarda l’estrazione di idrocarburi offshore entro le dodici miglia nautiche dalla costa. Dunque il referendum riguarda il futuro di 88 piattaforme che fanno capo a 31 concessioni “a coltivare” (la coltivazione indica la zona dove una compagnia ha il permesso di estrarre gas o petrolio), oltre a quattro piattaforme relative a permessi di ricerca ora sospesi.
Il quesito chiede di abrogare la norma, introdotta dalla legge di stabilità entrata in vigore il 1 gennaio 2016, che permette di estendere una concessioni “per la durata di vita utile del giacimento”, cioè per un tempo indefinito.
Se vincerà il Sì torneremo semplicemente a quanto previsto in precedenza dalla normativa italiana e comunitaria, ossia le concessioni avranno durata trentennale, con possibilità di proroghe per complessivi venti anni. D’altra parte è insolito che una risorsa pubblica sia data in concessione senza limiti di tempo prestabiliti. È questo uno dei motivi per cui la Corte Costituzionale ha giudicato ammissibile il quesito.
Ma la vittoria del Sì al referendum, osteggiato e svilito in tutti i modi dal nostro governo, avrebbe un significato politico di ben più ampia portata, perché segnerebbe il cammino che i cittadini e le cittadine vogliono che il governo intraprenda con forza, ovvero quello della transizione energetica, per favorire la ricerca e diffusione di tecnologie e fonti energetiche che ci liberino dalla dipendenza dai combustibili fossili. Questo è l’impegno convenuto nell’Accordo di Parigi che il nostro Paese e altri 194 firmeranno il prossimo 22 Aprile dopo il COP 21 di dicembre e questo quello che chiedono governi locali, associazioni e organizzazioni ambientaliste e tutti quanti credono che il nostro prezioso ecosistema marino e costiero sia un bene da tutelare per garantire sviluppo al nostro Paese.