L’odio del diverso che è in noi

di Barbara Balzerani  

C’è qualcosa che entra e rimane lì a scuotere parti profonde a ogni immagine delle ripetute cacciate di zingari dalle loro dimore cittadine. E non è solo questione di senso civico che si ribella allo spettacolo poco edificante di persone messe per strada con tutta la loro casa sulle spalle e famiglia per mano. E’ qualcosa che ci riguarda da molto più vicino. Che riguarda la nostra stabilità emotiva, il nostro andirivieni tra “normalità” e irragionevolezza. Il lato oscuro di ciascuno di noi che ci presenta il conto ogni volta che usciamo dalla nostra divisa quotidiana e ci estraniamo, concedendoci un passaggio nello sconosciuto che è in noi e ci somiglia tanto da rivelarci la nostra faccia nascosta. Perché in fondo siamo tutti un po’ zingari, un po’ migranti.

E anche di tutto un po’. E ci sfiniamo per non somigliare alla parte nascosta dentro di noi. Quando ci succede di mostrare la sua faccia ci creiamo l’alibi di cadute nell’incoscienza, per qualche bicchiere di troppo o a causa di sogni che ci prendono alle spalle. Perché quello che ci parla in quei momenti è l’altro da noi che abbiamo dentro e che ci fa una tremenda paura. Forse è per questo che facciamo in modo che qualcun altro lo interpreti, per poterlo padroneggiare marcando la differenza. E chi se non gli zingari può offrirci migliore teraupetica via di fuga? La loro diversità è evidente, nei segni, nei colori, nei toni di voce. Non ci piacciono, e noi a loro. Il primo sentimento che scatta è di diffidenza reciproca. Con una cifra in più della normale inquietudine di fronte a qualcosa di sconosciuto. Non li vogliamo attorno e loro farebbero volentieri a meno di noi. Il nostro immotivato sentimento di avversità è costato un destino di persecuzioni ininterrotte, fino alle camere a gas naziste. Nella storia della nostra civiltà sono stati il capro espiatorio per eccellenza. Eppure sono l’unica etnia che non ha mai formato un esercito e combattuto una guerra, neanche di autodifesa. E’ vero, tendono a rubarci il portafoglio e anche a “ripulirci” la casa, danni e prepotenze di poco conto se paragonate a quelle degli affiliati di certi potentati che dispongono della nostra esistenza e che nessuno pensa di rinchiudere in un ghetto lontano dalle nostre case. 

E’ un intreccio difficile da districare quello tra le tante facce dell’identità di ciascuno. Solo a pochi eletti è concesso esprimerne l’incoerenza. Lo fanno gli artisti, i vagabondi, i bambini, i pazzi, quasi sempre pagandone un alto prezzo. Per tutti i comuni mortali la consegna è di confermare i tratti univoci che rispondono all’aspettativa socialmente autorizzata, a costo di sfamarsi di pane e psicofarmaci. Ai non conformi va anche peggio. Una sola deroga è ammessa: rinnegare se stessi, consegnarsi ai dispositivi della rieducazione e cancellare la propria diversità.  E’ quello che voleva fare Alissa, una rom di 18 anni conosciuta nel carcere minorile di Casal del Marmo. Veniva dall’ex Jugoslavia, con alle spalle una casa distrutta durante la guerra. A nove anni l’iniziazione alla droga. Eroina, cocaina, mica robetta. Come tutto il resto della famiglia, madre e padre compresi. Le chiedo: “Da quando fate uso di certe droghe?”. “Succede da una decina d’anni. Prima al massimo facevamo festa con grandi bevute”, mi risponde. Chissà? Mi viene da pensare che forse adesso non hanno più molto da festeggiare tutti insieme e anche loro si rintronano ognuno per conto suo. Uno dei costi dell’emarginante integrazione a senso unico, come quello pagato dagli indiani nelle riserve, offuscati dall’alcool dei bianchi.

Alissa mi racconta il suo andirivieni col carcere. Che venisse punita per la sua attività criminale neanche lo capiva, visto che non conosceva altro modo per fare soldi. Questo non dovrebbe scandalizzare nessuno. Quante volte abbiamo sentito chiedere da ragazzi di buona famiglia, autori di orrendi delitti: “Perché? Non si può fare?” Lei scontava la sua pena e tornava a rubare, taglieggiando con scarsa destrezza la vittima di turno. Pochi soldi, per la dose quotidiana. La faceva stare bene la droga. Le facevano dimenticare la miseria del campo, lo sguardo malevolo degli “italiani” e la sofferenza per la sua diversità. 

“Quando uscirai cos’è che pensi di fare? Avrai una ventina d’anni, tornerai al campo?” le chiedo. “No, non ci torno al campo. Di chi sentite dire alla gente che rubano? Degli zingari. Ci sono italiani che rubano, ci sono americani che rubano, ci sono di tutte le razze che rubano, però di più di chi parlano? Non è che parlano perché c’abbiamo i campi sporchi, parlano di noi solo perché rubiamo”. Non vuole avere più niente a che fare con la sua gente. Lei li odia gli zingari e non vuole più essere una di loro. Mi scappa detto che lei è una di loro e non può odiarsi tanto da perdere se stessa. Per essere cosa?  “Voglio essere come voi”, mi risponde asciutta, risoluta a non aggiungere altro. Ha ragione. Sotto la spinta di ininterrotte persecuzioni ha ereditato il disfacimento della sua comunità nell’esilio tossico delle nostre periferie. L’abbiamo convinta del nostro superiore modo di vivere. Lei adesso chiede di entrare. La guardo determinata a spogliarsi di sé e consegnarsi nuda a compagni di viaggio esercitati nell’odio verso la sua gente. Quanto potrà resistere a fare da guida indigena nelle loro battute di caccia? Ad accontentarsi della benevolenza degli avanzi del banchetto a cui non sarà mai invitata? Della libertà condizionata che le verrà concessa come inaffidabile? Quanto a capire di essersi disarmata da sola cadendo nella trappola del disprezzo della sua differenza? Ma quale altra strada potrebbe percorrere? Come camuffarsi per arrivare a un luogo di incontro con una faccia che non è la sua ma neanche la nostra? Come liberamente scegliere di cambiare avendo rotto ogni ormeggio dietro di sé con quello che è?

“Noi”, che ci smentiamo usando identiche parole, che riconosciamo a stento noi stessi, in preda a mille paure, armati in difesa di una identità che non ci identifica e “loro” che saltano nei cerchi di fuoco per compiacere la nostra stravagante idea di integrazione che non concepisce diversità da quello che noi diciamo di essere. Due condanne che sembrano trovare sempre di che alimentarsi. Eppure, se non fossimo asserragliati dietro la fragilità di un’unica ragione che si stupisce di non essere la sola, saremmo in grado di accogliere la restituzione più importante che “gli altri” ci offrono a titolo gratuito, con la sola loro presenza. E’ un insegnamento semplice, ma che forse ci può liberare da qualche angoscia afflittiva: potremmo imparare ad arretrare ogni volta che “gli altri” mettono alla prova i nostri pregiudizi, prima di forzare la loro diversità a nostra misura.

 

pubblicato su Gli Altri il 24 novembre 2009